Stonehenge
Nell’estate del 2016 sono stata due mesi in Inghilterra lavorando come au pair. Vivevo in un piccolo paesino in campagna chiamato Hungerford, all’incirca a metà strada fra Londra e Bristol. Era un posto carino e pittoresco, l’immagine stereotipata del villaggio nella campagna inglese, con casette di mattoni immerse in una natura verdeggiante. Ovviamente però proprio ciò che rendeva quel luogo pittoresco lo rendeva allo stesso tempo terribilmente noioso.
Come au pair vivevo insieme alla famiglia per la quale lavoravo, in una delle camere al piano di sopra. Ogni giorno venivo svegliata di buon’ora dalla bambina sulla quale ero incaricata di vigilare, Darcey, di cinque anni. La vestivo, la pettinavo, le preparavo la colazione e la salutavo quando si dirigeva a scuola con la mamma. Il resto della mattina la riempivo portando a spasso i cani, dando una pulita alla casa, inventando qualcosa da preparare per pranzo o semplicemente rilassandomi nell’unica caffetteria del paese.
Tante volte poi prendevo la bici che la famiglia mi permetteva di usare per le mie commissioni e mi mettevo a pedalare fra le colline del Berkshire, senza avere una meta ben precisa. Di fatto mi piaceva e mi divertiva sapere che per alcune ore al giorno ero completamente sola, senza nessuno che si preoccupasse di me. Mi è capitato anche di perdermi, qualche volta. Una volta in particolare uscii in bici con l’intento di raggiungere un piccolo villaggio su un fiume distante una quindicina di chilometri da Hungerford ma, senza mappe, allungai il tragitto moltissimo ed impiegai quasi tre ore per raggiungere la mia meta; e poi quando arrivai ero completamente sfinita, dopo aver pedalato su e giù per le colline senza sapere dove stessi andando, tant’è che fui costretta a chiamare un mio amico che venne a recuperarmi in macchina.
Nei pomeriggi ero poi sempre impegnata con Darcey, ed era veramente difficile riuscire a trovare quotidianamente un passatempo differente: certe volte disegnavamo, quando il tempo lo consentiva andavamo al parco, saltavamo moltissimo sul trampolino montato in giardino (per me era un vero incubo), cucinavamo, giocavamo con la pasta modellabile fino a che non arrivava l’ora di cena, che era intorno alle 6, minuto più minuto meno.
Tante volte ero io ad occuparmi della cena, mentre altre volte era la madre di Darcey che si dilettava in manicaretti quasi sempre a base di pesce o riso. Il venerdì era poi il giorno del fish and chips, che il padre di Darcey acquistava da sempre nella bottega più nota della zona, croccantissimo e saporito, accompagnato da una famosa salsina inglese a base di pisellini schiacciati.
Fatta eccezione per alcuni casi particolari, con la cena si concludeva la mia giornata lavorativa, ed ero teoricamente libera di uscire o di farmi i fatti miei in camera.
Prima di iniziare questa esperienza, a dire la verità, ero più preoccupata dei momenti di “tempo libero” piuttosto che di quelli di lavoro. Temevo che, trovandomi in un piccolo paese con due strade, qualche vecchio pub ed una caffetteria, le mie serate ed i miei fine settimana sarebbero stati decisamente noiosi. E poi, tra l’altro, fatta eccezione per un paio di ragazzi che lavoravano nell’unica caffetteria della città, ad Hungerford non c’erano giovani. Si passava direttamente dall’età di Darcey, l’età da asilo o scuola elementare, all’età dei suoi genitori: quindi di fatto, anche se ci fosse stata qualche forma di intrattenimento nel paese, pensavo che mi sarebbe toccato divertirmi da sola.
E invece, in maniera del tutto inaspettata, fin dal primo giorno capii che Hungerford e gli altri paesi vicini erano pieni zeppi di persone come me, che facevano esattamente quello che facevo io e che, esattamente come me, a fine giornata avevano una disperata voglia di uscire e parlare con qualche coetaneo.
Evidentemente in certe parti dell’Inghilterra “avere un au pair” è una specie di moda, e quasi tutte le famiglie, in particolare quelle benestanti o che comunque hanno spazio a sufficienza per ospitare un’altra persona, sono ben contente di farlo.
E poi in effetti è una cosa che conviene da entrambe le parti. Le famiglie si possono servire per diverse ore al giorno di una persona che è un tuttofare, che aiuta i bambini con i compiti, fa la spesa, le pulizie e porta a spasso i cani, mentre l’au pair ha la possibilità di vivere senza spese ulteriori in un altro Stato, con l’unico obbligo di fare alcuni basilari lavoretti domestici.
Conobbi quindi fin da subito diversi altri au pair, che erano ospitati dalle famiglie di alcuni dei bambini che frequentavano la scuola di Darcey. Certe volte ci vedevamo durante il giorno, ma nella maggior parte dei casi ci organizziamo per la sera, e soprattutto per i fine settimana. Tra quelli con cui strinsi amicizia c’erano tre ragazze spagnole ed un ragazzo polacco, con il quale continuo a sentirmi tutt’ora come se non fosse passato neanche un mese da quando ci siamo conosciuti.
Al ragazzo polacco, Klaudiusz, era consentito utilizzare una delle auto della famiglia per la quale lavorava, cosa che nei fine settimana ci tornava sempre molto utile. In ogni caso, comunque, seppure Hungerford si trovasse letteralmente in mezzo al nulla e che tutta la zona fosse abitata da anatre e mucche piuttosto che da persone, c’è da dire che era collocata in una posizione strategica e ben collegata. Dalla stazione di Hungerford si poteva arrivare in un’ora a Londra e in poco più di un’ora a Bristol, dall’altra parte, al confine con il Galles. Ovviamente visitammo entrambe queste città. A Londra ci ero già stata più volte, ma ci pareva semplicemente un overe tornarci, trovandoci così vicini. Bristol invece era una città che nessuno di noi conosceva, e che visitammo in occasione del festival annuale delle mongolfiere, un evento veramente spettacolare (al quale ho dedicato un post “Bristol Balloon Fiesta”), che ogni anno richiama decine di migliaia di turisti.
Ci spingemmo molte volte a nord di Hungerford, verso Oxford, Swindon, Cambridge, Bath, visitammo il castello di Windsor.
A circa quaranta minuti in auto a sud di Hungerford, poi, si trovava la famosissima località di Stonehenge, i cui monoliti in pietra li avevo ben presenti fin dalla scuola elementare, ma che non avevo mai avuto l’occasione di vedere dal vivo.
Scegliemmo una giornata soleggiata (incredibile per l’Inghilterra, anche d’estate) ma ventosa, e patimmo in macchina verso Stonehenge.
Una volta arrivati ci si presentò di fronte un immenso parcheggio, oltre al quale era stata edificata, probabilmente pochi anni prima, una struttura modernissima che fungeva di biglietteria, caffetteria, negozio di souvenir e piccolo museo. So che può sembrare un po’ infantile, e che probabilmente avrei dovuto supporre che i monoliti di Stonehenge non si trovassero proprio in mezzo ad un prato qualunque, come quello dietro alla casa di Hungerford: d’altra parte però il modo in cui tutto il sito era stato organizzato, per diventare esclusivamente un’attrazione turistica che intrattenesse i visitatori per diverse ore e che li convincesse a pagare 8 sterline per un sandwich con l’uovo o per una calamita, mi lasciò non poco perplessa.
Ricordo che mio padre mi aveva messa in guardia sono cosa avrei probabilmente visto una volta arrivata. Mi disse che lui era stato a Stonehenge circa trent’anni prima di me, e che all’epoca non era eccessivamente frequentato dai turisti, e che ci si poteva avvicinare ai monoliti fino a toccarli.
Ecco, quando invece lo visitai io la situazione era decisamente mutata.
Per avere accesso al complesso era necessario pagare un biglietto da 7, 50 sterline.
Oltre l’edificio museo/biglietteria/ristorante/negozio di souvenir era stato ricostruito un piccolo villaggio del neolitico, con tanto di capanne di fango e ramaglie, nelle quali era possibile entrare per vedere con i propri occhi come si doveva vivere oltre 5000 anni fa. Oltre al villaggio si trovava il complesso di Stonehenge, quasi del tutto nascosto dietro ad una folla di gente che si ammassava ai margini di una corda che impediva di avvicinarsi troppo.
Stonehenge: la datazione
Stonehenge, dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO dal 1968, insieme ad Avebury e ad altri complessi simili nella zona (che tra l’altro abbiamo visitato), è probabilmente il più noto monumento preistorico esistente al mondo. Il sito si presenta come un circolo di 93 rocce monolitiche collocate su un terreno leggermente rialzato e circondato da un terrapieno. La datazione al radiocarbonio effettuata alla fine del 1900 ha rivelato che la costruzione di Stonehenge avvenne a partire dal 3100 a. C. e che si concluse più o meno nel 1600 a. C.
Oltre al mistero che riguarda le modalità di costruzione del complesso di Stonehenge, un altro, forse più interessante interrogativo ruota intorno alla sua funzione. Anche in questo caso sono state avanzate le ipotesi più fantasiose: c’è addirittura chi ha affermato che Stonehenge, apparentemente impossibile nella costruzione se veramente risale al 3000 a. C., potesse essere opera degli alieni.
Ad ogni modo, ad oggi le teorie più accreditate sono due, che di fatto non si escludono a vicenda. Per prima cosa, dal momento che il complesso è circondato da numerosi cumuli di terra, è plausibile pensare che Stonehenge facesse parte di una gigantesca necropoli, e che quei cumuli di terra fossero in realtà tumuli sepolcrali.
La costruzione di Stonehenge
Dal momento che alcune delle pietre che costituiscono il complesso hanno un peso superiore alle 40 tonnellate (comunque varia fra le 25 e le 50 tonnellate), nel corso dei secoli sono state avanzate svariate ipotesi riguardo le tecniche impiegate per la sua costruzione. La più plausibile oggi afferma che le pietre più grandi in gneiss (una comune roccia metamorfica), furono molto probabilmente tagliate da una collina a circa 30 chilometri dal complesso e poi trasportate per mezzo di slitte, realizzate in modo che scivolassero su rulli di legno per limitare l’attrito con il suolo. Per quanto riguarda le pietre più piccole invece, è possibile che siano state estratte anche da siti ben più lontani, per poi essere trasportate con lo stesso sistema.
Una volta trainate fino a Stonehenge poi, le pietre che sarebbero andate a costituire gli elementi verticali venivano fatte scivolare in delle cavità appositamente ricavate nel terreno con l’ausilio di un sistema di leve, e poi issate per assumere posizione eretta. Una volta poste due pietre in verticale, l’architrave veniva probabilmente aggiunta attraverso l’ausilio di strutture di legno e ingegnosi sistemi di leve.
La funzione di Stonehenge
Un’altra ipotesi invece suggerisce che Stonehenge fosse una sorta di gigantesco calendario astronomico, oltre che come strumento per predire alcuni eventi astronomici, come le eclissi. Infatti è stato osservato che durante il solstizio d’estate il sole sorge esattamente dietro alla Heel Stone se la si osserva dall’altare in pietra al centro del circolo.
Ad ogni modo ancora oggi non ci sono certezze riguardo l’effettiva funzione del complesso di Stonehenge e forse è proprio questa mancanza di certezze che rende questo sito archeologico così misterioso e suggestivo.
Noi ci trattenemmo diverse ore a Stonehenge, attendendo pazientemente che la situazione si facesse meno caotica. Alla fine riuscimmo anche noi ad avvicinarci un po’ e a vedere bene la maestosità e il mistero del circolo di pietre monolitiche.
Una volta scattate un po’ di foto ci sedemmo sull’erba e mangiammo i panini che ci eravamo portati da casa, organizzando uno dei picnic più originali che avessi mai fatto.
Sulla strada del ritorno ci fermammo nel piccolo museo all’interno dell’edificio all’ingresso, dove sono conservati alcuni manufatti ed utensili rinvenuti a Stonehenge e in scavi archeologici vicini.
Personalmente amo la storia e trovo che tutto ciò che riguarda il nostro passato sia davvero interessante, per cui, al di là dell’aspetto esterno da parco divertimenti, Stonehenge sia veramente un sito imperdibile. E poi questo alone di mistero e di leggenda che lo circonda. A parer mio, lo rende la meta ideale per chiunque, non soltanto per gli appassionati di storia.
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