Mandalay

Subito dopo la classica colazione a base di frutta tropicale, quella mattina ci dirigemmo verso la Pagoda Kuthodaw. La nostra guida Bobo continuava a dire che si trattava del “libro più grande del mondo” e noi non riuscivamo affatto a capire cosa potesse significare. Da una parte, ci pareva che in Myanmar avessero veramente una specie di pallino per i record di questo genere, e poi proprio non ci era chiaro come una pagoda potesse essere anche il libro più grande del mondo.

Di fatto però ci fu chiaro non appena arrivammo, e Bobo aveva davvero ragione.

Pagoda Kuthodaw 

La pagoda Kuthodaw si trova ai piedi della collina di Mandalay, e fu costruita durante il regno del re Mindon, nella seconda metà del 1800. Lo stupa in sé per sé, che si trova al centro della pagoda, è alto 57 metri ed è interamente coperto di lamine d’oro. Esso non è molto diverso da tutti gli altri stupa che avevamo ammirato durante il nostro viaggio in Myanmar, e la zona di Mandalay ne era letteralmente piena. Dalle colline infatti emergevano un po’ ovunque queste brillanti cupolette appuntite, spesso circondate da strutture bianche e abitate da decine di monaci buddisti.

Ma la pagoda Kuthodaw, al di là della sua mole e della sua oggettiva bellezza, è veramente unica, e Bobo ci aveva preparato abbastanza. Infatti, in 729 piccole stupa bianche in miniatura costruite tutto intorno allo stupa centrale, sono custodite le pagine del Trpitaka, tratto dal Theravada buddista.

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Sebbene abbia usato il termine “pagina”, in realtà si tratta di vere e proprie lastre di marmo rettangolari, sulle quali sono state incise su entrambi i lati le parole del famoso canone buddista. Questa caratteristica unica, proprio come ci diceva Bobo, fa della pagoda Kuthodaw il “libro più grande del mondo”.

 

La costruzione della grandiosa pagoda, che nel progetto del re avrebbe dovuto conservare il canone per cinque millenni dopo la morte del Buddha, iniziò nel 1860 e si concluse nel 1868, quando le pagine del canone poterono essere leggibili dai fedeli.

Purtroppo però l’annessione della Birmania da parte dell’Inghilterra nel 1885 fece cadere la magnifica pagoda in disuso. Gli inglesi cambiarono il nome del palazzo di Mandalay in Fort Dufferin, e stanziarono truppe in tutti i siti religiosi sulla collina di Mandalay, dai monasteri, ai templi, fino ovviamente alle pagode. 

Queste divennero quindi completamente inaccessibili per i fedeli, ai quali fu vietato di visitare i loro siti religiosi. 

Fu così che un diplomatico burmese decise di appellarsi direttamente alla regina Vittoria, ricordandole la promessa secondo la quale le credenze religiose e le pratiche degli abitanti del Myanmar sarebbero state rispettate. Inaspettatamente la regina rispose positivamente alla richiesta, ed ordinò il ritiro immediato delle sue truppe da tutti i luoghi di culto del Myanmar, nel 1890.

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Quando i fedeli tornarono alla pagoda di Kuthodaw, purtroppo, notarono immediatamente che era stata danneggiata e sottoposta a saccheggio da parte delle truppe inglesi: gran parte dell’oro, dell’argento, dei diamanti, delle pietre preziose e dei pregiati marmi italiani erano andati perduti. Anche le sculture che rappresentavano personaggi sacri per la religione buddista erano state distrutte o vistosamente danneggiate, e molte parti erano mancanti.

Per questo, a partire dal 1892, una commissione di monaci ed ufficiali, con il sostegno economico della famiglia reale birmana, si occupò del restauro e della ricostruzione delle parti della pagoda che erano state rovinate. In più, in questa fase, un ruolo fondamentale venne svolto anche dalle donazioni volontarie della popolazione, che contribuirono a riportare la pagoda allo splendore di un tempo. Furono anche aggiunti dettagli che prima non erano presenti, come due grandi cancelli di ferro decorato in corrispondenza dell’ingresso a nord e di quello a sud; in corrispondenza dell’accesso principale alla pagoda, invece, furono piantati dei fiori, che ancora oggi emanano n fortissimo odore simile a quello del gelsomino.

 

 

La nostra visita alla pagoda Kuthodaw fu lunga e suggestiva, anche perché fummo fermati decine di volte dai fedeli, palesemente incuriositi dalla presenza di turisti. Tutta l’area intorno allo stupa dorato era affollatissimo di persone, adulti e bambini, intenti nelle attività più varie, dalla preghiera al semplice relax. 

E poi era inevitabile notare quanto fossero incuriositi ed attratti dalla nostra presenza. 

Io, imbracciata la macchina fotografica, mi divertii a fotografare i personaggi più caratteristici, quasi sempre bambini, che erano ben felici di diventare i soggetti delle mie foto.

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In quei luoghi poi di fatto non c’è bisogno di nessun talento particolare: i colori sono già magnifici di per sé, e le persone lo sono ancora di più.

Ogni volta che facevamo tappa in un posto sarei potuta rimanere a gironzolare a piedi scalzi per diverse ore, se non fosse stato che il nostro tempo era sempre limitato.

Per cui anche quella volta, dopo aver fatto amicizia con tutti gli abitanti della pagoda, indossammo di nuovo i nostri sandali e, a bordo del nostro fidato pulmino, ci spostammo verso la seconda tappa della giornata, il monastero Shwenandaw.

 

Il monastero Shwenandaw

In origine il monastero di Shwenandaw fu pensato per costituire la residenza della famiglia reale, sotto il regno di Thibaw Min. 

La storia legata alla sua costruzione è piuttosto curiosa, come curiosa è anche a struttura che si può ammirare oggi.

Essa fu voluta del re Thibaw Min nel 1878, immediatamente dopo la morte del padre. Egli decise di smantellare la dimora del padre defunto e di ricostruirla in un’altra zona, credendo che il vecchio palazzo reale fosse infestato dal suo spirito.

 

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La struttura fu completata il 31 ottobre del 1878 ed unita all’adiacente monastero di Atumashi. Si dice che il re Thibaw Min la usasse come luogo per la meditazione, e il punto esatto in cui soleva inginocchiarsi è ancora ben visibile all’interno del monastero. 

In origine il palazzo/monastero era interamente coperto d’oro (come quasi tutte le strutture importanti in Myanmar), e decorato con mosaici di vetro colorato. Dal punto di vista architettonico l’edificio rispettava, e rispetta tutt’ora i canoni tradizionali dello stile birmano, fatto di piccole stupa e decorazioni curvilinee.

Oggi la copertura d’oro non è più visibile all’esterno, che appare nella sua struttura in legno scuro e lucido. Se confrontato con tutti gli altri edifici che avevamo visto fino a quel momento, in particolare monasteri e pagode, il monastero di Shwenandaw risultava molto diverso, in particolare per il materiale utilizzato per la sua costruzione. Mancava un elemento fondamentale per l’architettura birmana: l’oro. 

Di fatto però l’assenza d’oro costituiva proprio la principale particolarità di quel luogo, che nel complesso appariva scuro e misterioso, sia all’interno che all’esterno. L’interno era fatto da un susseguirsi di stanzette piuttosto piccole e basse, poco luminose e decorate con i soliti ornamenti ridondanti e curvilinei. Le stanze erano collegate le une alle altre mediante splendidi portali scolpiti, e tutto l’edificio dava l’impressione di essere un vero e proprio labirinto.

Non riuscii affatto a capire quali fossero le reali dimensioni di quella struttura, né quali fossero le funzioni dei vari ambienti. 

Questo non significa che non rimasi colpita dal monastero Kuthodaw: anzi, mi colpì ancora di più proprio perché era molto diverso da come me lo sarei aspettato, e perché, in un certo senso, non riuscivo a comprenderlo a pieno.

 

In seguito proseguimmo verso la pagoda Kaughmmudaw, a circa un’ora dal monastero. Lungo il tragitto attraverso i villaggi ci fermammo in un pittoresco laboratorio di tessuti, dove un artigiano creava abiti in miniatura che faceva indossare a delle bizzarre marionette, che scolpiva lui stesso. 

Fu una fermata veramente particolare, per la quale Bobo ricevette molti ringraziamenti.

La bottega di questo strano artigiano era lunga, stretta e buia, e aveva un intenso odore di incenso. La ristrettezza degli spazi era poi accentuata dal fatto che ogni centimetro libero era occupato da cianfrusaglie, delle quali spesso era impossibile intuire la funzione. Molte delle piccole opere di legno dell’artigiano erano ammassate sul pavimento, mentre altre ancora erano appesa al soffitto. La luce era soffusa, ed arrivava da delle lampadine coperte di polvere e ragnatele. 

In fondo alla bottega l’artigiano stava completando la sua ultima marionetta. Felice di ricevere la visita di ospiti così inattesi, ci mostrò con orgoglio il suo lavoro. La marionetta che aveva in mano era un omino con una faccia strana, con gli occhi grandi e due buffi baffetti, ed indossava un completo blu ed una bombetta. Le sue mani e le sue braccia erano collegate a delle cordicelle, tramite le quali l’artigiano poteva farle muovere.

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Quando la marionetta iniziò a muoversi noi rimanemmo sbalorditi: aveva movenze veramente umane, talmente umane da apparire quasi inquietante. L’artigiano stava accovacciato in un angolino in penombra della sua bottega, e continuava a muovere sorridente le braccia e le gambe della sua ultima creazione. Noi eravamo pietrificati, non riuscivamo a staccare lo sguardo dalla marionetta. 

Quando Bobo ci fece tornare sulla terra, ricordandoci che c’era ancora tanto da vedere, ci sembrò di aver appena assistito ad uno degli spettacoli più belli della nostra vita, messo in atto da un artigiano birmano in una bizzarra bottega.

 

Proseguimmo verso la pagoda Kaughmmudaw e il suo immenso stupa.

 

La pagoda Kaughmmudaw

 La pagoda di Kaughmmudaw, che si ispira a quella di Ruwanwelisaya in Sri Lanka, i caratterizza per il suo stupa di forma ovale, decisamente più tondeggiante rispetto ai classici stupa birmani di forma piramidale. La sua costruzione ebbe inizio durante il regno di Thalun, nell’aprile del 1636 e completata dodici anni dopo, verso la fine del regno di Thalun.

La pagoda ha un’altezza di 46 metri e una circonferenza di 274 metri

In più la struttura ospita un’immensa statua di Buddha seduto, la cui testa ha un diametro di quasi due metri e mezzo. E’ credenza popolare che nella cupola siano conservate alcune reliquie di Buddha, come uno ei suoi denti ed alcuni capelli.

Si crede che questa statua di Buddha si a antecedente alla pagoda vera e propria, e che quest’ultima sia stata edificata intorno alla statua: la sua forma sarebbe quindi così particolare anche in funzione della necessità di adattarsi alla forma della statua sacra che ospitava.

Un’altra leggenda, decisamente più curiosa, narra una storia completamente diversa relativamente alla forma curiosa ed inusuale della pagoda di Kaughmmudaw.

Secondo questa storia il re Thalun non sapeva proprio che forma dare alla cupola. Gli anni passavano e i lavori non andavano avanti: il sovrano infatti voleva che la sua pagoda si differenziasse da tutte le altre, che avesse un profilo particolare e riconoscibile.

Alla fine la moglie, esasperata dal marito, si stracciò la veste e gli mostrò il suo seno prosperoso: ed ecco che finalmente arrivò l’ispirazione e la forma fu decisa una volta per tutte. 

 

Dopo questa tappa ci spostammo verso la collina di Sagaing, costellata di pagode. Innanzitutto visitammo la pagoda di Umin Thonze, per poi dirigerci verso la vicina pagoda Sun Pon Nya Shin.

 

La pagoda di Umin Thonze

 

La pagoda di Umin Thonze, anche. Nota con il nome di Pagoda delle trenta caverne, si trova in cima alla collina di Sagaing, dalla quale si può apprezzare una magnifica vista su Mandalay, la campagna circostante, il fiume Irrawaddi e le decine di pagode dorate che emergono dalla vegetazione.

La pagoda è raggiungibile percorrendo una lunga scalinata, che permette di raggiungere il suo edificio principale. Esso ospita 45 statue identiche di buddha (come gli anni in cui Buddha fu monaco), posizionate a semicerchio in corrispondenza delle pareti.

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Le statue sono, come al solito, dipinte di bianco e ricoperte d’oro. Il resto dell’ambiente è invece un’esplosione di colori. Le pareti dietro alle statue sono decorate con mosaici di vetro, sui toni del blu, dell’azzurro e del verde, e sono illuminate dalla luce naturale che filtra attraverso le numerose porte dalle quali si accede alla struttura. Anche il pavimento è arricchito con piastrelle variopinte, a formare disegni geometrici ripetitivi. L’esterno invece è prevalentemente bianco, ma anche in questo caso non mancano colori vivaci che lo rendono ancora più spettacolare.

La pagoda Sun Pon Nya Shin

La pagoda Sun Pon Nya Shin è una delle più antiche e riccamente decorate dell’intera zona, nonché di tutto il Myanmar. Infatti fu costruita nel 1312 dal ministro Pon Nya, dal quale la pagoda prende il suo nome.

Gli ambienti esterni ricordano molto, sia architettonicamente che dal punto di vista dei materiali e dei colori utilizzati, la vicina pagoda di Umin Thonze, con i suoi 45 buddha. 

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Tuttavia questa pagoda è decisamente più estesa, e caratterizzata dalla presenza di più ambienti distinti. L’ambiente principale, quello più sacro ed adibito alla preghiera, ospita una grande statua di Buddha, davanti alla quale si accalcano i devoti in preghiera. La statua, dipinta di bianco e oro, siede nella sua classica posizione a gambe incrociate ed ha un volto sereno, con le labbra curvate in un leggero sorriso. Davanti ad essa i fedeli depositano le offerte, che possono essere semplici fiori, o cibo, come anche oggetti preziosi, a seconda delle possibilità economiche.

All’esterno svettano numerosi stupa dorati, con la loro tradizionale forma piramidale, che circondano un cortile interno con il pavimento decorato con piastrelle colorate.

Al di là dell’opulento cortile si trova un terrazzo, sempre piastrellato, dal quale, affacciandosi, si può ammirare il fiume Irrawaddy che scorre fra i villaggi. 

Terminammo il tour del giorno con la visita al tramonto del ponte in legno di teak U-Beinche, per l’ennesima volta in questo viaggio, mi lasciò senza parole.

 

La nostra abilissima guida Bobo aveva poi previsto che arrivassimo per l’orario del tramonto presso il famoso ponte U-Bein, noto per essere il ponte interamente costruito in legno di teak più lungo del mondo. 

 

Il ponte U-Bein

 

Il ponte U-Bein è un ponte pedonale, costruito per collegare due villaggi sulle sponde opposte del fiume Irrawaddy. E’ affollatissimo soprattutto alla sera (intorno al tramonto) e alla mattina presto, quando centinaia di persone lo percorrono in entrambe le direzioni. Il ponte, lungo 1,2 chilometri, è curvo nella sua parte centrale, in modo che possa resistere nel tempo alla potenza del vento e dell’acqua del fiume

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La sua realizzazione iniziò nel 1848, quando la capitale del regno venne spostata ad Amarapura, vicino a Mandalay. La persona incaricata di supervisionare sulla sua costruzione era il maggiore U-Bein, che poi diede il nome al ponte. Venne realizzato sfruttando il legno di teak del vecchio palazzo reale a Inwa: per la precisione, vennero utilizzati 1086 pezzi di legno di teak, quasi tutti ancora oggi visibili. Quelli che fanno da sostegno per il ponte sono stati infilati nel terreno fangoso del fiume Irrawaddy a diversi metri di profondità, in modo da garantire stabilità all’intera struttura. Nonostante il ponte sia in buone condizioni, considerato che il legno è facilmente soggetto all’usura provocata dal passaggio continuo dell’acqua, di fatto c’è il rischio che alcuni dei suoi supporti possano essere irreparabilmente danneggiati. Infatti, se si osservano i pilastri del ponte, si può facilmente notare che alcuni di essi sono stati del tutto “sradicati” dal terreno, e che rimangono attaccati al ponte solo mediante le connessioni con le altre porzioni in legno. 

In più negli ultimi anni l’acqua in questa zona del fiume è diventata stagnante, provocando ulteriori danni alle fondamenta del ponte.

Per questo motivo dall’aprile 2009 sono presenti forze dell’ordine del governo birmano per vigilare sullo stato del ponte e per accertarsi che non venga danneggiato dalle attività umane, incluso il vandalismo. 

 

Quando il cielo iniziò a diventare di un magnifico rosa intenso salimmo su delle piccole barchette di legno, che si andarono a posizionare sul lato sinistro del ponte. Con il sole di fronte a noi, dietro al ponte di teak, la struttura di legno cos come le centinaia di persone che lo percorrevano apparivano come sagome completamente nere, che si stagliavano contro il cielo rosa. Era un’immagine degna di un dipinto. La situazione era letteralmente perfetta, il cielo spettacolare, che dal rosa, verso il basso, passava al rosso fuoco e poi all’arancione. Le persone continuavano a percorrere senza sosta il ponte senza curarsi delle nostre barchette: era impossibile distinguere gli uomini dalle donne, perché tutto ciò che vedevamo erano sagome, ma vedevamo chiaramente che alcuni erano monaci, con le loro lunghe tuniche svolazzanti. 

 

Rimanemmo lì immobili a fotografare e ad ammirare quello spettacolo fino a che il sole non fu completamente scomparso nel fiume Irrawaddy ed il cielo non diventò rosa tenue, per poi scurirsi.


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