verso Mandalay
Dopo la solita ricca colazione a base di frutta che non avevo mai provato prima (e della quale fino a quel momento non conoscevo neanche l’esistenza) ci mettemmo in viaggio per Mandalay, la seconda città più grande in Myanmar. Conosciuto come il centro del buddismo in Myanmar, Mandalay è il regno degli stupa, dei monaci e dei monasteri.
Prima tappa a Mingun che raggiungemmo con un breve e suggestivo viaggio in battello lundo il fiume Irrawaddi.
Mingun è una località a circa 10 chilometri a nord ovest di Mandalay, nella regione Sagaing. A Mingun si trovano tre monumenti importanti ed antichi: la pagoda bianca di Hsimbiume, la grande campana di bronzo ed infine la pagoda incompleta di Pahtodawgyi.
La pagoda incompiuta di Pahtodawgyi
La pagoda di Pahtodawgyi è ciò che rimane del grandioso progetto del re Bodawpaya, che nel 1790 iniziò la costruzione di quella che, secondo il suo personale progetto, sarebbe dovuta diventare la pagoda più grande del mondo. Purtroppo però il progetto rimase incompiuto, ma si può facilmente avere un’idea di quella che doveva essere la mole della struttura semplicemente osservandola da lontano. La struttura si staglia sul terreno brullo come se fosse una montagna, ed ha un che di misterioso.
Pare che il re, per portare a termine questa ambiziosa costruzione, impiegò migliaia di prigionieri di guerra e di schiavi. Nonostante questo però si dice che Bodawpaya, quando i lavori erano ancora in corso, ricevette in sogno una profezia, secondo la quale “una volta che la pagoda fosse stata completata, sarebbe stata la fine per tutta la nazione”. Terrorizzato quindi il sovrano decise di interrompere immediatamente la costruzione della pagoda, che rimase più o meno nello stato in cui possiamo vederla oggi.
Dico più o meno perché poco dopo l’interruzione dei lavori, il 23 marzo del 1839, la regione fu colpita da un violento terremoto, che provocò dei danni alla struttura.
In particolare si formò una profonda spaccatura fra i mattoni, che di fatto, per quanto mi riguarda, rende la costruzione ancora più misteriosa e suggestiva. La crepa corre esattamente nel centro della facciata della pagoda, dalla parte alta fino al portale di ingresso.
Io ovviamente non riuscii a trattenermi dal raggiungere quel portale, che da lontano appariva come una sorta di caverna scura e senza fondo. Si accedeva all’ingresso attraverso una scalinata, dalla quale era davvero possibile avere una visione a trecentosessanta gradi sulla pagoda e sull’ambiente circostante, costellato di altri monumenti, quasi tutti apparentemente lasciati incompiuti.
Quella che pareva una caverna senza fondo era invece ciò che rimaneva del primo ambiente della pagoda: le pareti laterali erano crollate, per cui rimaneva solo uno spazio stretto e buio, all’interno del quale era stata sistemata una piccola statuetta di buddah.
Da vicino tutta la struttura era ancora più suggestiva, qualcosa di davvero mai visto prima, e devo dire che stare lì, con la testa sotto a quella profonda crepa, incuteva un leggero timore.
Tutto sommato, anche se il grandioso progetto del re Bodawpaya non fu mai portato a termine, la pagoda di Pahtodawgyi rimane probabilmente una delle più spettacolari che abbia mai visto, indubbiamente diversa rispetto allo sfarzo dorato di tutte le altre.
E poi, anche se non è esattamente la pagoda più grande del mondo, Badawpaya sarebbe felice di sapere che la sua originale opera rimane ancora oggi il cumulo di mattoni più grande del mondo.
Nello stesso sito ammirammo anche l'enorme campana in bronzo da 90 tonnellate e ci divertimmo ad osservare dei calciatori giocolieri.
La campana di bronzo di Mingun
La campana di bronzo di Mingun è una delle più pesanti del mondo. Il suo peso è di 55.555 viss (l’unità di misura del peso utilizzata in Myanmar), che corrispondono per la precisione a 90718 chilogrammi.
E’ curioso che questo numero, caratterizzato dalla ripetizione del cinque, viene rcordato dalla popolazione burmese attraverso la frase “Min Hpyu Hman Hman Pyaw”, dove le consonanti indicano proprio questo numero secondo l’astronomia e la numerologia del Myanmar.
Queste esatte parole, fra l’altro, sono riportate in bianco sulla superficie bronzea della campana in lingua burmese (မင်းဖြူမှန်မှန်ပြော).
Il diametro esterno della campana è di quasi 5 metri, per una circonferenza totale di 15,5 metri. Tutta la struttura è alta oltre sei metri, il che rende il semplice stargli vicino veramente impressionante. Si dice che per trasportare una tale mole sia stata necessaria la costruzione di due canali appositi, che partivano dal fiume Irrawaddi e poi proseguivano per alcune centinaia di metri per raggiungere il sito dove doveva essere collocata la campana. A quel punto pare che, per sollevare la struttura, sia stato necessario innalzare il livello dell’acqua, per poi appendere la mastodontica opera ad un sostegno resistentissimo, costruito precedentemente.
Ancora oggi la campana è in ottime condizioni e suona perfettamente. A questo proposito, è particolare il fatto che non abbia un batacchio interno, come nelle classiche campane, ma che venga suonata dall’esterno, mediate un bastone di legno.
La costruzione di questa campana iniziò nel 1808 e fu conclusa nel 1810. A volerla fu ancora una volta il re Bodawpaya, lo stesso che volle la realizzazione della pagoda di Pahtodawgy, che evidentemente aveva una passione per tutto ciò che poteva essere “il più grande del mondo”.
In questo caso però va detto che il re riuscì nella sua impresa: infatti la campana di bronzo di Mingun è rimasta la più grande e la più pesante al mondo fino al 2000, quando è stata surclassata dalla campana della Fortuna nel tempio cinese di Foquan, che ha un peso di circa 116 tonnellate.
Il resto della giornata lo dedicammo alla visita e all’esplorazione della magnifica pagoda bianca di Hsimbyume (anche detta di Myatheindan).
La pagoda di Hsimbyume
La pagoda di Hsimbyume si trova a pochi passi da quella di Pahtodawgy, ma è stilisticamente del tutto diversa. Se infatti la seconda colpisce per il colore marrone dei mattoni e per l’aspetto antico, misterioso, ed essenzialmente per il fatto che sia stata lasciata incompleta, la prima è uno spettacolo di armonia, precisione, raffinatezza e biancore assoluto.
Si dice che il colore bianco fosse stato scelto per ricordare la descrizione della montagna sacra al buddismo, il monte meru. In più secondo la tradizione la vetta della montagna in questione ospitava la mitica pagoda Sulamani, che fu fonte d’ispirazione stilistica per l’architetto della pagoda si Hsimbyume.
In sostanza quindi tutta la bianca pagoda dovrebbe rappresentare nella sua parte bassa il Monte Meru, mentre nella sua parte alta la pagoda Sulamani.
La struttura fu edificata nel 1816 dal re Bagyudaw, che la dedicò alla sua prima moglie Hsimbyume che morì dando alla luce suo figlio in un luogo poco lontano da dove oggi si trova la pagoda.
Essa ha forma circolare, costituita da diversi anelli posizionati su livelli diversi. Questi formano delle vere e proprie terrazze, che possono essere raggiunte mediante una scalinata ripida. Gli anelli sono in tutto sette, ed il numero ovviamente non è casuale: infatti il numero sette è legato alla mitologia buddista. Tutta la pagoda era affollata di monaci, con i loro tipici abiti color mattone. Tutta l’immagine che se ne ricavava era estremamente suggestiva: c’era il biancore totale ed abbagliante della pagoda, ovunque decorata con magnifici ghirigori che non facevano altro che alleggerirla ulteriormente. Seppure fossero decorazioni ridondanti e ripetitive, l’impressione che conferivano alla struttura nel suo complesso era di ordine e perfezione: tutta la pagoda sembrava letteralmente senza peso, quasi fosse fatta di panna montata o della materia delle nuvole.
E poi tutto l’ambiente era reso ancora più magico e suggestivo dalla presenza dei monaci, che si aggiravano tra i terrazzi della pagoda senza fare rumore, fungendo da macchia di colore in quella tavolozza perfettamente bianca. Alcuni di loro scoprivano le teste rasate con dei grossi ombrelli colorati, e sembravano veramente il soggetto di un quadro, o magari di qualche foto di Steve McCurry.
Tutto era immerso in un silenzio totale, dove l’unico suono che riuscivo ad udire era quello dei clic (migliaia) della macchina fotografica di mio padre, che era esaltato almeno quanto me.
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