Mio figlio Pietro: in Erasmus a soli 3 anni
Ciao a tutti!
In questo articolo vi racconterò l'esperienza di mio figlio Pietro, in ERASMUS a soli 3 anni! Prima di spiegarvi precisamente in che modo ha imparato il portoghese, vi farò un breve escursus sulla sua brevissima, ma già molto emozionante, vita!
Mio figlio è stato concepito nel mese di Maggio del 2011, in Brasile, più precisamente in una casetta in riva al mare, a Barra da Lagoa, sull’isoletta di Florianopolis, dove mi ero recata per studiare portoghese a Febbraio, durante il terzo anno della Laurea triennale in Mediazione Linguistica per la Gestione Aziendale. L’11 Febbraio del 2012 è nato Pietro, a Perugia, durante una tempesta di neve. Ho pensato da subito che sarebbe stato un bene per lui, imparare un’altra lingua durante i primi anni di infanzia ed ho cominciato a far ascoltare al mio pancino canzoni in lingua straniera. Le stesse canzoni, gliele ho fatte poi riascoltare una volta nato e mi sono resa conto che le riconosceva. Così, pensando che l’inglese lo avrebbe imparato a scuola, ho iniziato a parlargli in portoghese tutti i giorni, durante il bagnetto, e la sera gli leggevo delle fiabe. Quando ha cominciato a guardare i cartoni animati, molto spesso glieli facevo vedere in portoghese o in inglese.
A due mesi ha preso il suo primo aereo; siamo partiti insieme per il Portogallo, con due biglietti di sola andata. Dopo una visita a Porto, ci siamo recati a Lisbona, ospiti a casa di una scrittrice di fama mondiale, Luísa Costa Gomes, sulla quale stavo scrivendo la mia tesi per il conseguimento della laurea triennale; a nove mesi, siamo stati una settimana a Londra ed una a Praga; a quattordici mesi l’ho portato in Egitto; a circa quindici mesi ha cominciato a parlare e tra le sue prime parole, ve ne era qualcuna inglese come “bye bye” (ciao ciao) e “thank you” (grazie) e tante altre in portoghese, come ad esempio “bola” (palla), “carro” (macchina), “bombeiro” (pompiere), “cozinheiro” (cuoco), “carteiro” (postino) e “homem aranha” (uomo ragno).
Quando aveva due anni siamo andati in crociera ed abbiamo visitato Roma, Palma di Maiorca, Marsiglia e Savona. Intanto aveva cominciato a frequentare l’asilo nido, in cui pagavo un supplemento mensile per un’ora di inglese a settimana. Siamo poi partiti per una seconda crociera, visitando Bari, Corfù, Mykonos, Santorini, Dubrovnik e Trieste. Insieme abbiamo visitato anche Varsavia, Oslo, Bergen, Stoccolma, Parigi, Turku, Helsinki, Tampere, e per finire, Rovaniemi, la città di Babbo Natale.
Finalmente, nell’Agosto del 2015, quando aveva tre anni e mezzo, siamo partiti di nuovo per il Portogallo, in quanto ero risultata vincitrice di un’altra borsa Erasmus! Questa volta era inizialmente prevista una permanenza di cinque mesi, ma ho successivamente chiesto ed ottenuto un prolungamento di altri cinque mesi.
Abbiamo trascorso una settimana in vacanza a Lisbona, a casa di una mia vecchia amica. Per un paio di giorni, Pietro ha attraversato una fase di silenzio, che normalmente precede le produzioni orali di chiunque stia apprendendo una seconda lingua, ed in cui ha analizzato l’input, individuando le sue parti salienti (dal punto di vista semantico, pragmatico e fonico), memorizzandole e poi definendo alcune frasi efficaci ed abitudinarie nelle interazioni quotidiane.
Inizialmente io gli facevo da interprete, ma probabilmente Pietro sentiva il bisogno di comunicare da solo ed ha cominciato molto presto a mettere in pratica i miei insegnamenti, per la voglia di giocare con i bambini in spiaggia. Si avvicinava, dicendo “Olá! Como te chamas? ” e poi rispondeva “Eu me chamo Pedro”, più simile all’italiano “Io mi chiamo Pietro”, ma forma scorretta in portoghese in quanto, di norma, nelle frasi affermative, il pronome segue il verbo. Dopo un mesetto ha imparato a rispondere correttamente. In compenso, nelle frasi negative subordinate ed in quelle interrogative il pronome precede il verbo, come in italiano e dunque non ha mai avuto problemi, sin dall’inizio.
Ha cominciato a produrre un output utilizzando una keyword strategy: tendeva ad usare enunciati brevi, avvalendosi di una grammatica elementare e ruotando attorno a poche parole-chiave. Ricorreva spesso alla deissi per indicare oggetti e situazioni; si aiutava con gesti, cenni e linguaggio del corpo. Faceva appello alla collaborazione dei parlanti nativi, i quali, per capirlo, dovevano assumere un atteggiamento di collaborazione comunicativa. Da subito ha iniziato a creare parole, utilizzando la radice italiana e la desinenza [os], forse sentita come tipicamente portoghese e non ancora assimilata come maschile plurale. Alcuni esempi di parole che ha inventato in questo modo sono: “nonnos” (utilizzato per dire avô, nonno); “vestitos” (utilizzato per dire roupas, vestiti); “libros” (utilizzato sia per dire livro, libro, che livros, libri); “secchiellos” (utilizzato per dire balde, secchiello); “scudos” (utilizzato per dire escudo, scudo).
Riguardo al problema di accordare i nomi secondo genere e numero, ha appreso prima il numero, e poi il genere. Quando poi ha imparato ad accordare un nome con articoli, aggettivi e participi, ha appreso prima l’accordo dell’articolo, poi quello dell’aggettivo e infine quello del participio.
In breve ha imparato a distinguere tra le forme maschili e femminili, ma ha continuato a creare parole miste, ad esempio “stellas” (utilizzata per dire estrelas, stelle); “spadas” (utilizzata per dire sia espada, spada che espadas, spade); “maglias” (utilizzata per dire t-shirt, maglietta).
Anche con alcuni pronomi possessivi ha avuto difficoltà a causa delle interferenze con l’italiano, ad esempio inizialmente diceva “tuo” invece di teu (tuo) e “mia” invece di minha (mia), che al plurale diventavano “tuoos” e “mias”, invece che teus (tuoi) e minhas (mie).
Altri trasferimenti morfologici cross-linguistici che ho riscontrato nel suo modo di parlare sin dai primi giorni, hanno coinvolto il modo di coniugare alcuni verbi e riguardavano l’applicazione del morfema italiano “iamo” ai verbi portoghesi, ad esempio, “brinchiamo”, invece di “brincamos” (giochiamo), “faliamo” invece di “falamos” (parliamo); oppure l’utilizzo dell’ausiliare portoghese insieme al verbo italiano coniugato all’infinito del portoghese “vou mangiar”, invece di “vou comer” (vado a mangiare), o “vamos scoprir”, invece che “vamos descobrir” (andiamo a scoprire).
Per quanto riguarda il sistema verbale, le prime forme che ha appreso sono state la seconda e la terza persona dell’indicativo presente, oltre all’infinito. Successivamente ha sviluppato una forma di passato col participio, naturalmente non accordato al nome, e poi imperfetto ed ausiliare.
Dopo circa venti giorni dal nostro arrivo in Portogallo, io ho cominciato a frequentare l'"Universidade de Coimbra” e Pietro il "jardim de infância O Pátio”, ovvero una scuola materna, vicino casa, di cui le persone del posto mi avevano parlato positivamente; ed in effetti, mio figlio ci si è trovato molto bene, al punto che, nonostante la mia intenzione fosse quella di farlo abituare gradualmente, aumentando mano a mano il tempo di permanenza a scuola, in realtà, da subito mi ha espresso la sua volontà di “restare fino a quando non chega a mãe di Martim e Simão”, cioè fino alle 18:30. Dunque trascorreva nove ore della sua giornata circondato da bambini e maestre che parlavano solo in portoghese ed il risultato è stato che dopo soli tre giorni di scuola, già canticchiava in portoghese e dopo una settimana, addirittura mi ha insegnato alcune parole o espressioni che io non conoscevo, ad esempio: asneiras, stupidaggini; bibe, grembiulino; rebuçado, caramella; átalo, scorciatoia; saltar a pé-coxinho, saltare con un solo piede.
Aveva legato molto con i suoi compagni di classe e la cosa mi faceva immenso piacere. A scuola ci andava sempre volentieri. Le maestre erano brave e preparate. Gli facevano fare tantissime attività. Durante l'anno scolastico, gli hanno fatto fare anche alcune gite fuori porta ed a dicembre, hanno organizzato un bellissimo spettacolo di Natale, al quale ha preso parte anche Pietro. Fu davvero emozionante! Eccolo nella foto in basso, vestito da pastorello.
Mangiando alla mensa scolastica o alle cantine universitarie, si è adattato anche alle abitudini alimentari locali, il cui pranzo tipico comprendeva: una "sopa", ovvero una zuppa che poteva essere di legumi, di verdure, di gallina, ecc., e che fungeva da “antipasto” e poi un piatto unico con "arroz", che sarebbe semplice riso, consumato soprattutto in bianco, in sostituzione della pasta, come accompagnamento alla carne o al pesce, alle uova o alle patate e all’insalata.
Anche a casa, mi sono divertita a cucinare piatti tipici portoghesi. Tra quelli più apprezzati da mio figlio, ricordo la "couve portuguesa", che sarebbe un tipo di cavolo, portoghese, dalle foglie larghe e di colore verde scuro, diverso sia dalla verza che dal cavolfiore; il "bacalhau com nata", che sarebbe il baccalà al forno, condito con tanta panna, tanta cipolla, e tante patate; il "porco à alentejana", ovvero un piatto tipico della provincia dell’Alentejo, a base di carne di maiale e frutti di mare, solitamente accompagnato con patate; il "cozido à portuguesa", che sarebbe uno stufato molto ricco, preparato soprattutto al Nord e al Centro del Portogallo, che contiene vari tipi di carne, oltre a diversi legumi e verdure; e la "feijoadas", una zuppa di fagioli scuri e carne.
I nostri spuntini preferiti comprendevano: "tostas mistas", che sarebbero semplici toast di prosciutto cotto e formaggio, con burro ed origano; "torradas", ovvero fette di pane tostato ricoperto da abbondante burro; "pastéis de nata", ovvero dei dolcissimi tortini di pasta sfoglia con un ripieno di crema, spolverati da zucchero a velo e cannella; "queques", che sarebbero dei dolci dalla consistenza simile a quella del pan di spagna; "bolos de arroz", che sarebbero caratteristici dolcini a base di riso; "brigadeiros", che sarebbero dei dolcini tipici brasiliani, che consistono in palline di cioccolato a base di cacao, burro e latte condensato, ricoperte da zuccherini al cioccolato, delle vere e proprie bombe caloriche; ed "hóstias conventuais", che sono dei dolci tipici conventuali, dei composti di uova e mandorle, ricoperti da ostia e zucchero a velo.
Durante il nostro soggiorno in Portogallo, abbiamo visitato tutto il distretto di Coimbra e molte altre località, tra cui: Lisbona, Setúbal, Tróia, l’isola di São Miguel, Aveiro, Porto, fino ad arrivare in Spagna, a Salamanca. Nella foto in basso, siamo alla stazione ferroviaria di Coimbra, mentre ci accingiamo a partire per uno dei nostri viaggi. Da notare la gioia di mio figlio e la sua maglietta, sulla quale c'è scritto "Explore Nature Travel"...
Ci siamo divertiti tantissimo, insieme, in quei 10 mesi. La mattina ognuno andava a "scuola" sua, il pomeriggio andavamo al parco a studiare e poi a giocare, e la sera uscivamo a divertirci.
In questa foto mi sembra un buttafuori... Ci era appena stato vietato l'ingresso in un locale, perchè non era consentito l'accesso ai minori di 18 anni. E lui si era un po' arrabbiato...
Ha partecipato anche alle due feste studentesche, universitarie, più famose e più conosciute in tutto il Portogallo: la "Latada" e la "Queima das Fitas"...
Il caso di mio figlio, insomma, è quello più comune di bilinguismo, in cui il bambino, cresciuto monolingue per qualche anno, viene poi immerso, prima della scuola primaria, in una nuova cultura ed in una seconda lingua, che apprende per vie naturali, e non per studio vero e proprio.
Infatti, essendo l’italiano già abbastanza stabilizzato in Pietro, l’apprendimento del portoghese è avvenuto almeno in parte comparativamente, cioè con riferimenti e confronti ai suoni, ai significati e ai costrutti della sua lingua madre. Tuttavia, non è stato evidentemente un apprendimento di tipo riflesso nozionale e razionale, ma un’assimilazione diretta della lingua attinta e assorbita continuamente dall’ambiente. Un apprendimento quindi funzionale, rispondente ad esigenze di immediata comunicazione, in naturali situazioni di vita. Infatti, le prime espressioni che ha utilizzato facevano riferimento alle sue esigenze elementari poste dai contatti spontanei con i coetanei e, nel formularle, Pietro si preoccupava più della loro funzione semantica che non delle caratteristiche morfo-sintattiche.
Il modo con cui ha imparato il portoghese assomiglia a quello proprio di un bambino che apprende la lingua materna, anche se vi si nota più lavoro intellettuale in quanto, appunto la lingua materna fa da appoggio. D’altro canto differisce anche dall’apprendimento di una seconda lingua da parte degli adulti, in quanto vi è minor dipendenza dalle associazioni e dalle abitudini articolatorie della prima lingua, spazio maggiore dato alla fissazione globale dei costrutti e l’importanza notevole del fattore gioco, che possiamo considerare la ragione più forte che ha spinto Pietro ad imparare il portoghese.
Effettivamente Pietro mi chiedeva sempre di tradurgli cosa dicevano le persone e mi domandava i nomi degli oggetti che non conosceva in portoghese. Si è imbattuto in vari “falsi amici”, ad esempio, inizialmente diceva roxo (viola), al posto di vermelho (rosso); ólio (grande ragno africano) al posto diazeite (olio); reparar (notare), al posto di consertar (riparare); pasta (valigetta), al posto di massa (pasta). Un giorno siamo andati in una fattoria insieme ad un mio amico portoghese, che ad un tratto gli ha detto “Este è um burro”, mostrandogli un asino e Pietro, sorpreso, mi ha chiesto “Mamma ma che dice João? ”, non sapendo che “asino” si dica burro in portoghese e “burro” si dica manteiga. Una mattina, una mia amica mi disse “Vou numa palestra” e Pietro, subito, “Eu também quero ir! ”, non sapendo che la palestra sia in realtà una “conferenza” e non “una sala con attrezzi per allenarsi”. Un pomeriggio sentì dire “Vamos galera” (Andiamo ragazzi! ) e rispose “Eu nao quero ir a galera”, non sapendo che galera significhi “gruppo di persone” e non “prigione”, che invece si dice cadeia. Infine, una sera una signora gli disse “Estas a fazer uma birra! ” e lui le rispose “Nao, eu nao bebo birra”, non sapendo che birra, in portoghese, significhi “capriccio”, mentre “birra” si dica cerveja.
Dopo tre mesi capiva quasi tutto ed era diventato più autonomo nelle conversazioni, grazie al suo lessico più ricco, soprattutto di parole contenuto, che gli permetteva di farsi comprendere in modo soddisfacente, seppure con uno stile “telegrafico”, con l’utilizzo di strategie lessicali per rendere la morfologia e con il ricorso a parole italiane nei momenti di difficoltà. In questo periodo, l’uso di elementi funzionali, appartenenti a classi lessicali chiuse (articoli, preposizioni e congiunzioni) era ancora carente. Aveva molta difficoltà nella distinzione e nell’uso dei pronomi dimostrativi sia variabili (este, esse e aquele) che invariabili (isto, isso, aquilo) e nella distinzione tra i verbi “estragar” (rovinare) e “partir” (rompere) e “levar” e “trazer”, che significano entrambi “portare”, ma, mentre il primo indica un movimento di allontanamento dal parlante o dal luogo dove questo si trova, il secondo indica il contrario. Ha subito capito l’utilizzo del verbo “haver” (avere) nella sua forma “há” nel senso di “c’è/ci sono”, ma ha impiegato un po’ di tempo in più per capire che quando “há” è seguito da un’espressione di tempo si traduce diversamente:há um ano, un anno fa.
Conosceva già molti verbi ed essi comparivano già flessi in molte forme e come nuclei delle frasi. Ciò nonostante, in questa fase, quando Pietro imparava una regola, tendeva a sovraestenderla e ad usarla anche in situazioni e contesti non appropriati. Tuttavia, gli errori dei bambini sono di solito il risultato di un lavoro produttivo che consiste nel cercare di costruire le regole di funzionamento della lingua. Possono, perciò, essere creativi, cioè rappresentare prodotti che il bambino non ha mai sentito attorno a sé, ma che rispettano regole estratte da altri prodotti linguistici. Per esempio anche il bambino monolingue italiano che dice qualcosa come “voglio bevere” si basa sulla correlazione regolare che esiste in molti casi tra la forma dell’infinito di un verbo e le altre forme del paradigma: se è possibile direio bevo, tu bevi, egli beve, come dico io rido, tu ridi, egli ride, perché non si può dire bevere come ridere? Oppure il bambino che dice “ho faciuto” per “ho fatto” si basa su forme legittime come “ho bevuto”. Questi fenomeni mostrano in modo evidente come il processo di acquisizione non sia fondato sulla pura imitazione, cioè la ripetizione di quello che il bambino sente. Esso è un processo creativo, durante il quale il bambino può produrre fenomeni linguistici mai sentiti prima e mai prodotti da un adulto. Anzi, spesso e volentieri, la fase di “sovraregolarizzazione” ha una sua collocazione precisa nel processo di apprendimento. Così, per l’inglese, lo studio pionieristico di Ervin (nel 1964) ha potuto dimostrare che il bambino utilizza molto presto forme flesse irregolari come “went” o “came”, spesso, addirittura prima di forme flesse regolari, come “walked” o “played”, ma che a questa prima fase (in cui probabilmente le forme sono state apprese per mera memorizzazione) fa seguito una fase “creativa” in cui le forme irregolari sono sostituite da sovrageneralizzazioni come “goed” o “comed”. La fase che segue è caratterizzata da una certa “confusione” e vi si ritrovano soluzioni strane come per esempio “walkeded” per “walked” o “wented” per “went”, che lasciano poi il posto alle forme corrette. Allo stesso modo, Pietro ha attraversato un periodo relativamente breve in cui diceva “fazì” invece che “fiz”, “fazeste” invece che “fizeste”, “trazì” invece che “trouxe” o “trazo” invece che “trago”, coniugando in modo regolare, verbi irregolari.
In questa fase, aveva anche difficoltà nella formazione di alcune parole plurali, come quelle terminanti in dittongo nasale, ad esempio cão (cane); quelle terminanti in -m, quali paisagem (paesaggio), homem (uomo), mandarim (mandarino); e quelle terminanti in -l, come animal (animale). Inizialmente diceva “cãos” invece di cães, “paisagios” invece di paisagens, “homos” invece di homens, “mandarinos” invece di mandarins e “animalos” invece di animais.
Altre difficoltà riscontrate riguardavano la concordanza tra articolo e nome nelle parole terminanti in -agem, come paisagem (paesaggio), mensagem (messaggio), personagem (personaggio), engranagem (ingranaggio), che in portoghese sono femminili ed in italiano maschili.
Per quanto riguarda la distinzione dei generi maschile e femminile, sia in italiano, che in portoghese, la maggior parte delle parole che finiscono in -a sono femminili ed il maschile di molte di esse finisce in -o; ma esistono diverse eccezioni, comedia (giorno), planeta (pianeta), problema (problema), che terminano in -a, ma sono di genere maschile. Tuttavia, Pietro non ha avuto nessuna difficoltà ad individuarle, probabilmente perché in italiano le avrebbe considerate alla stessa stregua. Proprio per interferenze dell’italiano, sbagliava sempre a dire “grazie”, che in italiano è neutro, mentre in portoghese concorda in genere e numero con il soggetto che lo utilizza. Dunque diceva “obrigada” piuttosto che “obrigado”, probabilmente perché lo ascoltava da me la maggior parte delle volte.
Un'altra cosa che era solito fare era formare il femminile delle parole imperador e ator, aggiungendo la -a, come spesso avviene nei nomi portoghesi che terminano in -r o -s (senhor-senhora, doutor-doutora, professor-professora), ma in queste parole il femminile si forma aggiungendo -riz, ottenendo imperatriz e atriz. Infine, a livello semantico, ho osservato un uso sovresteso o sottoesteso delle parole (termini generici per specifici: tavolo per scrivania o viceversa, donna per moglie).
Dopo quattro mesi parlava abbastanza speditamente. Accanto alla già diffusa presenza di coordinate, erano comparse le prime forme di subordinazione, per lo più con valore temporale o causale. Inoltre, il suo vocabolario era già molto ampio al punto da conoscere, mio malgrado, anche parolacce come “caralho” (cazzo), “foda-se” (vaffanculo) e “puta” (puttana), utilizzandole addirittura nei contesti giusti.
Dopo cinque mesi aveva addirittura imparato a dargli più enfasi, precedendole dal possessivo seu, come ad esempio "seu parvo", "seu imbecil", "seu idiota", "sua puta". In questa fase, l’interlingua di Pietro tendeva ad avvicinarsi sempre di più alle varietà native colloquiali, cioè alla lingua che i parlanti nativi usano in contesti informali. Gli enunciati contenevano già verbi coniugati, finiti, ed elementi il cui uso è governato da regole sintattiche specifiche di L2 (articoli, preposizioni, copule, ausiliari). La morfologia oltre ad arricchirsi era anche flessa: dopo l’uso diffuso di forme individuate come non marcate (il presente per i verbi, il singolare per i nomi), era arrivato ad un riconoscimento graduale del valore morfologico e funzionale delle diverse desinenze, e ad una progressiva strutturazione dei vari paradigmi morfologici. Di conseguenza, erano più sistematiche le occorrenze di accordo sintattico (fra soggetto e verbo, fra aggettivo e nome) e l’utilizzo di forme contratte, ad esempio quelle di alcuni aggettivi e pronomi quando seguono un nome.
Dopo sei mesi, anche mentre giocava da solo a casa, parlava in portoghese. Mi sembrava che fosse nato in Portogallo! Un giorno mi stupii quando alla domanda di un ragazzo “Es italiano? ”, lui rispose “sou”, utilizzando il verbo, al posto della particella affermativa “sim”, quindi come avrebbe probabilmente risposto un parlante nativo portoghese. I “brandelli” improvvisati dell’italiano erano diventati solo ancore sparse che sostenevano il senso di sicurezza di Pietro in atti di comunicazione precipitosa.
Dopo sette mesi mi è capitato di ascoltarlo parlare nel sonno…in portoghese. Secondo Antonio Tabucchi:«quando lei sogna in un’altra lingua, quella lingua è sua, perché non è più uno strumento di comunicazione intenzionale, ma appartiene al suo inconscio, come direbbe Freud; è proprio dentro. »
Tuttavia, ancora non gli erano chiare molte cose, come l’ordine dei numeri e dei giorni della settimana, oltre alla distinzione tra “ontem” (ieri) e “amanhã” (domani), “à frente” (davanti) e “atrás” (dietro), quente (caldo) e frio (freddo), “desculpa” (scusa) e “desculpe” (scusi), tutte cose che anche in italiano confondeva. Inoltre, non ricordava mai la parola também (anche) e spesso sbagliava ad utilizzare il comparativo di maggioranza e di minoranza degli aggettivi “buono” (bom/melhor), “cattivo” (mau/pior), “grande” (grande/maior) e “piccolo” (pequeno/menor), dicendo “é mais bom”, “è mais mau”, “é mais grande” e “è mais pequeno”, errore probabilmente comune anche a bambini nativi. Infine, così come in italiano, non faceva differenza tra modi formali e informali, rivolgendosi a tutti con il “tu”.
Dopo otto mesi aveva imparato perfettamente l’utilizzo dei pronomi e quasi tutte le coniugazioni verbali. Sapeva anche contrarre i verbi, quando necessario. Ad esempio, “vamos comprar o…” è diventato “vamos comprar-lo” e finalmente “vamos comprá-lo”. Rendeva il condizionale con il “pretérito perfeito”, ad esempio diceva “Gostava de ir ao cinema. ”, piuttosto che “Gostaria de ir ao cinema. ”.
Dopo nove mesi padroneggiava oltre all’indicativo e l’imperativo, il congiuntivo, sia presente, che passato e futuro. Quest’ultimo, lo usava maggiormente nelle temporali e nelle condizionali e meno nelle relative (quem, que, onde).
Se inizialmente utilizzava l’avverbio quando, con l’indicativo “quando chego” ormai aveva imparato ad utilizzarlo nella sua forma corretta, ovvero con il futuro del congiuntivo “quando chegar” e conosceva anche gli equivalenti “Assim que” e “Logo que” (non appena). Come nelle frasi temporali, anche nelle condizionali, inizialmente usava l’indicativo “Se me porto bem…” e successivamente ha imparato ad usare la formase + futuro del congiuntivo “Se me portar bem... ” (Se mi comporto bene... ). Per quanto riguarda i verbi irregolari, i quali formano il congiuntivo futuro a partire dal passato, ha avuto un po’ di difficoltà in più, per esempio se all’inizio diceva “Se eu faço... ”, poi ha cominciato a dire “Se eu fazer... ” e finalmente “Se eu fizer... ” (Se facessi).
Sorprendentemente, a mio giudizio, ha imparato ad utilizzare anche il trapassato del congiuntivo (mais que perfeito do conjuntivo). Infatti, mentre all’inizio diceva “Se chegavas antes”, in questo periodo diceva “Se tivesses chegada antes” (Se fossi arrivata prima).
Inoltre, se inizialmente usava il "talvez" con l’indicativo (Talvez estava a lavar os dentes), in questa fase aveva imparato che "talvez" regge sempre il congiuntivo (Talvez estivesse a lavar os dentes = Forse si stava lavando i denti). Conosceva bene anche l’espressione equivalente “se calhar”, e la utilizzava correttamente, facendola seguire dall’indicativo. Aveva appreso che in portoghese il congiuntivo è obbligatorio dopo le costruzioni “è bom que…, é possível que…, é provável que…, é precio que…, é importante que…”, così come nelle subordinate rette da verbi di desiderio (esperar), ordine (pedir), dubbio (duvidar), sentimento (recear que/lamentar).
Sapeva sostituire il congiuntivo con il gerundio (Se andarmos depressa, chegaremos primeiro/Andando depressa, chegaremos primeiro), con un sostantivo (Espero que ele venha/ Espero na sua vinda), con l’infinito (A educadora exortou as meninas a que continuassem a leitura/A educadora exortou as meninas a continuarem a leitura), e addirittura con una costruzione ellittica (Quer sejam bons, quer maus, são todos meus amigos/Bons ou maus, são todos meus amigos), mostrando una buona dimestichezza nella lingua.
La sua pronuncia era perfetta, migliore della mia o di qualsiasi altro studente Erasmus, seppure laureato in lingue.
Nello spazio di dieci mesi, Pietro ha imparato il portoghese quasi con la perfezione di un parlante nativo, acquisendo la capacità di inferire forme, regole e strutture linguistiche. Ha imparato anche alcuni proverbi, come:
- “Quem vai ao mar perde o lugar” (Chi va a Roma perde la poltrona);
- “Nem tudo o que brilha è ouro” (Non è oro tutto quello che brilla);
- “Devagar se vai ao longe” (Piano piano si va [sano e si va] lontano).
Con il passare del tempo, l’influsso accresciuto del portoghese ha addirittura indebolito l’italiano producendo interferenze nel vocabolario, nelle frasi idiomatiche e nella sintassi; interferenze protrattesi per vari mesi dopo il nostro rientro definitivo in Italia. Ad esempio:
- Confondeva “in” con "em", “come” con "como", “per” con "para";
- Metteva l’articolo davanti ai nomi, come si fa in Portogallo (O Jacopo è mio amico);
- Diceva “Che stai a fare? ” invece di “Che stai facendo? ”, perché più simile alla costruzione portoghese “Que estas a fazer? ”;
- Coniugava il verbo “andare” in maniera simile al verbo portoghese “andar” (che però significa camminare e non propriamente andare) e dunque diceva “io ando, tu andi, egli anda, noi andiamo, voi andate, essi andano”, al posto di “io vado, tu vai, egli va, noi andiamo, voi andate, essi vanno”;
- Sbagliava la prima persona singolare dell´imperfetto che, al contrario della lingua portoghese termina in “o” e non in “a”, dicendo frasi del tipo “Da piccolo io andava al mare dai nonni”;
- Diceva “Ti ho ingannato”, che non è comune in un italiano dei bambini per dire “Ti ho fatto uno scherzo”, ma è simile al portoghese “Enganei-te”.
- Pronunciava la prima persona plurale dell´indicativo imperfetto con l’accento portoghese;
- Pronunciava con accento portoghese anche la terza persona dell’indicativo presente di quei verbi che si scrivono nello stesso modo in italiano e in portoghese, ad esempio “indica” che in italiano ha l’accento sulla prima “i” e non sulla seconda come in portoghese; “termina” con accento sulla “e” per l´italiano e sulla “i” per il portoghese; “pratica” in italiano con accento sulla “a” ed in portoghese sulla “i”;
- Ci sono parole che continua a dire solo in portoghese, ad esempio “solletico” (cossegas) e “pitturare/dipingere/tingere” (pintar), in tutte le loro forme: “Mamma, smetti di farmi le cossegas! ”, “Mamma, hanno pintato i muri della scuola. ”, “Mamma, io non mi chiamo Pietro…mi chiamo pintor! ”, “Mamma andiamo a pintar? ”, “Mamma ma come te li sei pintada i capelli? Con la pintura viola? ”;
- Un giorno, la TV passò la pubblicità del cartone animato “Il Re Leone” e mi disse: “Una mia amica ce l’aveva la Guarda do Leão”. Si tratta di un evidente caso di code-mixing, in cui probabilmente il motivo per la quale ha detto il nome del cartone animato in portoghese è che lo ha sentito per la prima volta in Portogallo. È capitato anche che mischiasse parole, come ad esempio “Juglio”. Recentemente, mangiando un formaggino baby-bel, ha detto “Super-queijo! ” (Super-formaggio! ). Lo scorso 31 ottobre l’ho travestito da Batman e ad un tratto mi ha detto “adesso mettimi la capa! ” e considerando che capa in portoghese significa “mantello” ed è una parola femminile, gli ha giustamente abbinato l’articolola, anche se italiano la stessa parola è maschile.
Tuttavia, essendo abituato a viaggiare e ad ascoltare persone parlare in lingue straniere, per lui non è stato difficile separare italiano e portoghese in corrispondenza dell’interlocutore. Mentre eravamo in Portogallo, quando sentiva parlare in italiano, correva subito a fare amicizia. Tornati in Italia ci è capitato due volte di incontrare dei portoghesi. La prima volta si è meravigliato. Non si spiegava come fosse possibile che ci fosse qualcuno che parlasse portoghese a Perugia. La seconda volta, si è subito presentato in portoghese, definendosi addirittura “Pedro”. E' stato osservato, in effetti, che la capacità discriminativa degli stimoli acustici è presente fin dall'età prenatale. Tramite il paradigma della decelerazione della frequenza cardiaca fetale è emerso che il feto, a partire dalla trentesima settimana di gestazione, sia in grado di discriminare la voce materna da voci di altre donne, così come suoni ad alta frequenza, diversi dalla voce umana. Per mezzo del paradigma dell'intensità di suzione, le stesse abilità di apprendimento e discriminazione sono state osservate in neonati di pochi giorni di vita, che sono in grado non solo di discriminare la lingua madre, ma anche di preferirla ad una mai ascoltata prima.
Durante i nostri viaggi negli altri paesi, infatti, mi chiedeva che lingua parlassero le persone del posto, riconoscendo che non fosse né inglese, né portoghese. Ed anche quando guarda i cartoni animati su youtube e casualmente gli capitano in un’altra lingua, mi chiede che lingua sia, perché capisce che non è nessuna di quella che conosce. A volte mescola di proposito gli accenti e prova traduzioni impossibili (spesso comiche) da una lingua all’altra. Pochi giorni fa, mentre stavamo disegnando, ho detto: “Mamma mi, c’ fridd! ” e lui lo ha ripetuto perfettamente. Così gli ho chiesto: “Sai parlare pure napoletano? ”. E lui: “No, allora: io parlo italiano, napoletano, perugino, portoghese e inglese! Eu falo português (con accento napoletano)! Bye bye! ”.
Attualmente, le lingue recensite sono all’incirca sete mila ed il fenomeno del bilinguismo è ormai “pane quotidiano” per molti di noi, ma, nonostante sia un fenomeno mondiale, riguardante tutte le età e le classi sociali, purtroppo, è ancora diffusa in molti ambienti, una visione “monolingue” che lo considera, invece, come un fenomeno particolare, non fisiologico, diverso dalla norma.
Queste concezioni così negative e pregiudizievoli, ormai, non sono più accettabili! In primis, perchè ci muoviamo verso una società sempre più multietnica e multiculturale, dove il bilinguismo non sarà più l’eccezione ma la regola, e poi perchè esistono numerose ricerche che hanno dimostrato che le idee sulla “confusione linguistica” ed il “rischio di disturbo di linguaggio” causati dal bilinguismo siano del tutto infondate! Anzi... è stato dimostrato addirittura che, al contrario, lo sviluppo bilingue comporta notevoli benefici, ad esempio, l’accesso a due culture, la maggiore tolleranza, futuri vantaggi sul mercato del lavoro, oltre a benefici meno conosciuti, ma forse anche più importanti, sul modo di pensare e agire in diverse situazioni.
Personalmente, ho sempre pensato che sarebbe stato un bene per mio figlio, imparare almeno un’altra lingua in tenera età ed è per questo che due anni fa ho deciso di intraprendere questo percorso Erasmus insieme a lui, rimanendo sbalordita ed assolutamente soddisfatta per il livello di lingua che ha raggiunto, dopo 10 mesi di permanenza all’estero. Da qui è nato poi il mio interesse nell’approfondire il fenomeno del bilinguismo, soprattutto in età infantile, che mi ha portato a scrivere una tesi di laurea sull'argomento, dalla quale ho attinto varie informazioni per scrivere questo articolo.
L’obiettivo di questo lavoro è quindi quello di spiegare il concetto di bilinguismo sfatando i “falsi miti” che ruotano intorno ad esso, nonchè dimostrare alle giovani madri che frequentano l'università, che il percorso Erasmus non è precluso a loro, soltanto perchè hanno un figlio! Volere è potere! Io ho voluto ed ho potuto, e per me non è stato neppure facile, perchè per poter portare il bambino in Portogallo, ho dovuto combattre con il padre, il quale non era d'accordo e mi ha fatto scrivere da un avvocato. Ho speso 2 mila euro per sostenere i costi della causa, ma l'ho vinta e sono partita, felice, insieme a Pietro!
Il bilinguismo infantile è totalmente diverso dall’apprendimento di una seconda lingua in età adulta, in quanto è un processo spontaneo che ha luogo soltanto nel momento in cui il bambino ha abbastanza modo di sentire le due lingue e sufficiente motivazione per usarle entrambe. L’esperienza di gestire due o più lingue fin dall’infanzia si riflette in una serie di effetti positivi, in ambiti sia linguistici che non!
In primis, i bambini bilingui sono avvantaggiati nell’apprendimento di un'ulteriore lingua, perchè riescono a capire intuitivamente la struttura ed il funzionamento di ogni lingua, proprio perchè conoscono già due parole diverse per dire la stessa cosa e due modi diversi per esprimere lo stesso concetto. Inoltre, pare che i bambini bilingui siano facilitati nel riconoscere le lettere che vengono pronunciate, e, per questo, imparino a leggere molto tempo prima dei loro coetanei monolingui.
Un altro beneficio apportato dal bilinguismo, forse meno conosciuto, è la più precoce, oltre che maggiore consapevolezza che esistano persone che vedono le cose da una prospettiva diversa dalla propria. Questo perchè i bambini bilingui sono abituati ad adattare la scelta della lingua da usare quando parlano, in base al loro interlocutore.
Altri benefici apportati dal bilinguismo, riguardano, invece, il controllo esecutivo sull’attenzione. Pare che i bambini bilingui siano più rapidi, rispetto ai loro coetanei monolingui, a passare rapidamente da un compito all’altro quando entrambi i compiti richiedono un'attenzione particolare ed una capacità ad ignorare le interferenze. Essendo le due lingue dei parlanti bilingui, sempre attive nella loro mente, essi sviluppano un preciso meccanismo di inibizione che gli permette di mantenerle separate, in modo tale da limitare le interferenze tra loro. Questo fatto di inibire costantemente una lingua quando si parla l’altra, fa sì che i bambini bilingui abbiano tale capacità anche in altre attività della loro vita quotidiana, richiedenti attenzione e controllo esecutivo.
Tra le altre cose, sembra, addirittura, che alcuni di questi vantaggi cognitivi vengano mantenuti nella vecchiaia, ritardandone di parecchio tempo i sintomi, e proteggendo gli anziani bilingui dal declino di molte delle loro funzioni cognitive, che, generalmente, arriva, appunto, con l’invecchiamento.
Il bilinguismo infantile, dunque, lungi dal causare problemi, può al contrario apportare notevoli benefici. A mio avviso, quindi, non ha nessunissimo senso aspettare che la lingua materna si sia stabilizzata, prima di introdurre una seconda lingua, come credono molti genitori ignoranti in materia, in quanto, questo priverebbe il bambino dell’input in quella lingua proprio nel periodo più ricettivo: il cervello, infatti, è perfettamente in grado di gestire due o più lingue simultaneamente fin dalla nascita, anzi, è stato dimostrato che è proprio nei primi anni di vita che ha la sua massima ricettività nei confronti del linguaggio. I bambini, infatti, imparano qualsiasi lingua, senza alcuno sforzo e senza alcuna difficoltà, esattamente come imparano a camminare! E mio figlio ne è la prova evidente, in quanto sa parlare, oltre all'italiano ed alcuni dei suoi dialetti, il portoghese e lo spagnolo, perfettamente, ed in misura ridotta, l'inglese, materia che "studia" a scuola da ormai tre anni!
Detto ciò, vi consiglio di far accostare i vostri figli ad una seconda lingua, il prima possibile e faccio un enorme in bocca al lupo alle eventuali madri che, come me, decideranno di fare un'esperienza Erasmus insieme al proprio bambino!
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Commenti (1 commenti)
Chiara M. 4 anni fa
Bellissima storia :) Complimenti !!!