Lisbona è stata la mia lunga, splendida passeggiata

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Trovo difficile scrivere di una città senza cadere nello stereotipo. Mi capita in qualsiasi occasione, si tratti di redigere una guida di viaggio o di parlare di un’esperienza personale. Spesso quello che ne esce fuori è un groviglio di luoghi comuni, e di frasi che fanno fatica ad abbandonare il campo del già sentito dire. Temo le banalità che attingono all'immaginario collettivo, che nascono da ciò che ho letto e studiato. Questo perché prima di essere una viaggiatrice sono una lettrice. 

Adesso per esempio vivo a Berlino e quando ne se sento parlare è come se mi trovassi di fronte a una città eternamente anni ottanta, un’esplosione di euforia e di trasgressione. Una quotidiana consacrazione alla dea libertà. Poi la guardo con gli occhi della abitante-non lettrice, faccio appello alla potenza della tabula rasa e mi rendo conto di quanto sia folle ridurla a uno stereotipo culturale. Mi piacerebbe avere nel cervello il pulsante della saggezza vergine, non contaminata dalla conoscenza. Un tasto cerebrale da azionare tutte le volte che voglio, che mi permetterebbe di guardare alle cose con gli occhi del neonato. Come se le vedessi per la prima volta.

Anche con Lisbona è stato così. Prima di partire me la immaginavo piccola nelle dimensioni e grande nelle sensazioni che è capace di restituire. Davanti agli occhi apparivano mattonelle scheggiate, panni stesi alla finestre, e una luce così bianca da acuire il rumore del silenzio. La mente pullulava di personaggi bizzarri e malinconici, tanti piccoli Pessoa con il giornale sotto il braccio, orgogliosi e colpevoli di vivere ai margini nella nazione più dimenticata d'Europa. Nelle orecchie la musica degli africani espatriati e i suoni sommessi di quelli che non se ne sono mai andati.

Poi ci sono arrivata in una calda mattina di fine maggio e ho scoperto che gli stereotipi sono belli e in parte veri. Che ciò che sentivo io, lo avevano già sentito e scritto Pessoa, Saramago e Tabucchi. Nessuno è rimasto indifferente al fascino dell'azulejo sbeccato. Tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dall'estrazione sociale, dall'età, si sono lasciati andare all'abbraccio della brezza che soffia sul Tejo. Quando viaggia, l'umanità entra in contatto con sé stessa. E si scopre bella, più che nella sua multiculturalità, nel suo essere universale.


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