Ho scritto un racconto
Se ne stava per andare
Se ne stava per andare, si era fatta una certa ora e il tempo iniziava ad incupirsi. Una certa ora, si era fatta una certa ora, ma che modo di dire stupido. È sempre una certa ora. Questa certa ora però, era l’ora in cui stava per passare l’ultimo autobus, era la certa ora che se non lo avesse preso avrebbe perso l’occasione d’oro di rivedere, proprio quella sera, Susanna.
Così, prese le sue cianfrusaglie e salutò dirigendosi verso l’atrio. Non appena uscì dalla casetta, ecco un tuono irrompere nel silenzioso cupo giardino.
Borsa, cerniera ombrello.
Per fortuna era sempre pronto là dentro, l’ombrello. Si diresse a grandi passi verso la fermata. Aveva dieci minuti per raggiungerla.
Altro lampo, altro tuono.
Questa volta a seguire ci fu una raffica fortissima di vento che fece frusciare intensamente gli alberi del parco dall’altra parte della strada.
Vento, ombrello… niente ombrello.
L’ombrello si era rivolto indietro alla forza del vento, il quale aveva spezzato completamente le asticelle metalliche di sostegno. Si chiese, a quel punto, se fosse più saggio proseguire pian piano a raso muro sotto i cornicioni e i balconi dei palazzi o se non fosse meglio iniziare a correre veloce sotto la pioggia.
Raso muro. Una ventina di metri. L’orologio, sei minuti. Inizia a correre sotto la pioggia cercando di evitare le gocciolone e pulendosi gli occhiali con le dita cercando di imitare i tergicristalli. Eccola, la banchina.
Correva.
Il cielo era diventato nero, nero scuro, ma scuro scuro. Erano le 18 e 56 ma era notte. C’era vento e un attimo dopo, appena mise piede sotto la banchina… stop. Niente vento. Si chiese se non ci fosse qualcuno lassù a prenderlo in giro.
Non si muoveva una foglia.
Tutto fermo, zitto, sotto l’umida e costante pioggia. Lui era lì, sotto la banchina, zitto e fermo, seduto su un angolino di quella che doveva essere un tempo la panchina d’aspetto. Un tempo. Ora sembrava più una scultura di arte moderna, rosicchiata dai topi e piena di scritte destinate a segnare la fine di tante relazioni.
Era lì, fermo, immobile, aspettava. Scrutava con i suoi occhietti piccoli da sotto il cappello. Scrutava se si vedesse il bus in lontananza. Scrutava e pensava al suo cappello. Lo faceva sembrare un gran signore ma aveva appena 25 anni. Gli piaceva. Gli piaceva il cappello e gli piaceva essere un gran signore di 25 anni.
Sarebbe piaciuto anche a Susanna? Le sarebbe piaciuto quel signore 25enne con il cappello? Voleva vederla, doveva vederla. Capire. Capire se l’amava. Era sicuro che lo avrebbe capito, quella stessa sera, guardandola.
19.04 il bus non si vede. Incredibile pensare a quale cerchio di eventi unisce il percorso del bus. Tutti i pensieri che racchiude. Tutta quella gente che si guarda e si innamora senza mai più rivedersi. Come era accaduto a lui e a Susanna.
Avevano 18 anni, o meglio - lui ne aveva 18 e lei 17, per la precisione. Si erano guardati e lui si era innamorato. Anche lei si era innamorata. Tutti i giorni si guardavano e si innamoravano. Un giorno lei era salita e si era seduta accanto a lui. Non c’erano altri posti. Lui però era sicuro che lo aveva fatto perché era innamorata. Poi, una mattina non si erano guardati, erano stati in silenzio l’uno accanto all’altra. Finito il liceo non si erano più visti ma lui era sicuro che quella sarebbe stata la storia d’amore migliore.
Dall’altra parte della strada un uomo e una donna. Insieme. A braccetto. Un uomo e una donna insieme a braccetto. Forse dovrei dire due fidanzati, ma magari due amici, magari due sposi, o forse solo fratello e sorella. Sotto un ombrello, ombrello rosso scuro che racchiudeva un legame forte, su questo non vi erano dubbi. Forse era così che sarebbero andate le cose. Quella sera avrebbe rivisto Susanna alla festa di Alice. Si sarebbero rivisti e avrebbero passato il prossimo giorno di pioggia insieme sotto un ombrello rosso scuro, abbracciati. E un ragazzo alla banchina non avrebbe avuto esitazioni nel pensare a loro come ad una coppia.
I due si guardavano. Lui guardava il bus che non arrivava. Li scrutava però, di nascosto. I due erano troppo intenti a rifugiarsi sotto l’ombrello rosso scuro per accorgersi di lui. Erano quasi lontani oramai.
19:12
Fu un istante. Un singolo istante. Lei tirò fuori la mano dalla tasca, insieme alla mano una pistola. Bum. Un istante e i due non erano più legati. Un istante e lui non c’era più. Sai cosa sto dicendo. Era morto. Il ragazzo fermo, impietrito, immobile. Incapace di gridare, di chiamare aiuto, di fare qualsiasi cosa. Lui c’era. Non c’era però. La donna ferma sotto l’ombrello accanto al corpo morto dell'uomo.
Un attimo dopo, che in realtà erano almeno 3 minuti, ecco ambulanze, sirene, vigili, poliziotti, gente. Nessuno, nessuno, ma proprio nessuno si accorse di lui. Fermo, con i suoi piccoli occhi spalancati.
Ecco il bus. Come se nulla fosse, sale sul bus, timbra il biglietto, si siede.
Era possibile che tutto ciò che aveva visto fosse nella sua testa? Era possibile che si fosse immaginato tutto? Questo giovane ragazzo grande e piccolo insieme. Poteva non aver reagito?
Scese alla fermata prima di casa sua. Camminò sotto la pioggia. Se lo meritava. Arrivò a casa. Doccia, armadio, vestiti puliti. Divano, nanna.
Non aveva sognato nulla. Era tutto accaduto. Televisione. Tutto risolto: la donna, compagna, l'aveva ammesso, subito, ora era in prigione.
L'avrà tradito. Sicuramente. Si erano conosciuti da qualche anno. Lei, donna in carriera, fiera della sua vita perfetta. Lui letterato da qualche soldo che amava la musica. Amava suonare per strada. Quel giorno, dopo la conferenza disastrosa con la Germania, lei camminava in piazza, sbattendo forte i tacchi per terra. Era arrabbiata. La sua canzone preferita. La stavano suonando. Sbatte i piedi a terra e si ferma per capirne la provenienza. Era lui, la stava suonando. Si guardarono.
"È stato l'unico momento bello di quella giornata e ho capito che non mi sentivo così felice da tanto tempo"
"Ero lì ad aspettarti"
Si erano detti qualche mese dopo essersi così straordinariamente conosciuti. E poi, la casa insieme e le passeggiate sotto la pioggia.
Lui aveva pubblicato un libro su un viaggiatore canadese nelle terre di fuoco. Aveva avuto tanto successo. Era andato in giro per il mondo a presentarlo, tradotto in ben 14 lingue tra cui anche il giapponese, che lei amava.
Una sera, un drink, una musicista, una camera d'albergo. Lei aveva 18 anni. Cosa importa l'età quando si è ubriachi a suonare bella musica? Importa quando è felice, ubriaca e con il tuo telefono in mano.
Così lui era tornato dal suo viaggio di presentazione del libro a Parigi. Lei lo aveva atteso e accolto. Lo aveva portato a passeggiare sotto l'ombrello rosso scuro. Lo aveva ucciso.
Suona il telefono. Sono le 21.30. Non aveva ancora mangiato. Si alza, frigorifero, piatto, frigorifero, telefono, pizza. "Una diavola, grazie"
Divano.
Era una studentessa, amava la scienza, voleva fare la ricercatrice ed era molto ricca. Il suo professore era bravissimo. Sarebbe andata a quella settimana intensiva in università. Sarebbe andata a vedere cosa vuol dire essere ricercatrice. Ci andò. C'era anche il professore, quello bravo.
Voleva fare la ricercatrice, come il suo professore bravo. Il terzo giorno glielo disse. Lui la guardò e le sorrise. Si guardarono e si sorrisero e si innamorarono. Andarono a vivere insieme e la sera amavano sedersi fuori sul dondolo e fantasticare sulle loro future ricerche.
Lui le raccontava degli articoli che aveva letto e lei gli rispondeva critica. Avrebbero avuto una bella vita, insieme, da ricercatori.
Il giorno che morì suo padre, già vedovo, lei divenne una delle giovani ricercatrici più ricche del Paese. Dieci giorni dopo trovò un'altra giovane studentessa davanti a casa. Era normale, tante chiedevano consigli al suo professore bravo.
Una sera tornò a casa prima del previsto e li sentì parlare. Avrebbero rubato tutti i suoi soldi dal conto corrente e sarebbero scappati insieme in Alaska, lì dove stavano preparando gli studi per una nuova ricerca dell'università.
Così erano usciti sotto l'ombrello rosso scuro, sotto la pioggia. Lei aveva evitato che un finto professore bravo le rubasse il patrimonio.
Ecco la pizza. 21.44. La diavola. Buona.
Lui faceva il fattorino e lei amava la pizza. Prendeva anche lei sempre la diavola. Si erano innamorati alla prima pizza. Stavano insieme da otto anni e progettavano di sposarsi. Vivevano insieme.
Vivevano già insieme quando lei si innamorò di Gregor. Vivevano già insieme quando sua sorella morì suicidandosi. Vivevano già insieme quando lei entrò in cura dallo psichiatra, che poi era dove aveva conosciuto Gregor.
Era tutto brutto nella sua vita, tranne Gregor, a lui la pizza non piaceva nemmeno. Lei e Gregor avevano capito che il mondo faceva schifo. Lei si era persino convinta che non le piacesse la pizza. Era colpa sua, non voleva sposarlo. Voleva sposare Gregor. Ma anche lui l'amava, non era possibile che l'amasse perché lei era pazza. Non tollerava l'essere amata da un non-pazzo.
Ormai aveva deciso, doveva smetterla di essere amata da lui. Così, passeggiata, pioggia, ombrello rosso scuro, pistola.
Erano le 22.05 e il telefono squillava di nuovo.
La festa. Alice. Susanna.
Bagno, pipì, denti. Armadio, cappello, scarpe.
Chiavi, porta.
Andando da Alice pensò che senso avesse tutto quello che aveva vissuto. Eppure appena qualche ora prima era solo un giovane 25enne con il cappello. Ora un testimone di un omicidio di cui cercava di capire il senso.
La festa. Doveva concentrarsi sulla festa.
"Auguri Alice"
"Susanna dice che non viene, stamattina ha detto che era malata"
Seduto sulla sedia fissava la gente divertirsi e pensava al senso che tutte le cose hanno. Di come arbitrariamente l'uomo ha chiamato gli oggetti. Di come ripetendo tante volte un nome, esso perda completamente significato.
Non l'avrebbe vista, Susanna, quella sera. Era malata. Come era possibile che fosse malata quando doveva guardala e capire se l'amava?
Sicuramente lei avrebbe dovuto esserci.
Ritornò a casa, sotto il suo ombrello, uno diverso da quello del pomeriggio. A strisce. Rosso e bianco. Rosso chiaro, però.
Quella donna e quell'uomo avevano un legame stretto.
Come ha potuto Susanna non presentarsi?
Come è possibile che sia malata proprio la sera in cui ...
Letto. Sogni, incubi.
Decise che doveva alzarsi e doveva andare in carcere. O forse era meglio che prima andasse da Susanna.
Si vestì e andò alla polizia.
"Io c'ero"
Tutto era andato esattamente come lo aveva raccontato lui. Tutto era andato esattamente come lo aveva raccontato lei.
"Posso vederla?"
"Dopodomani"
Due giorni dopo, il ragazzo e il suo cappello andarono in carcere.
"Perché l'ha fatto?"
"Cosa?"
"Uccidere l'uomo sotto l'ombrello rosso scuro"
"Perché avevo la pistola e potevo farlo"
"Ma era il suo fattorino delle pizze, era il suo professore bravo, era il suo cantante letterato"
"Era un uomo che amavo"
"E perché l'ha fatto?"
"Perché ne ho avuto la possibilità"
"Deve dirmi il significato della sua azione"
"Non c'è un significato"
"Non si vive senza"
"Guarda le persone"
"Le vedo"
"Vivono senza senso la loro esistenza, continuano a viverla ogni giorno"
"Non le uccido"
"Per cosa vivi tu?"
"Io - ebbe un attimo di vertigini, era lui a dover porre domande qui - io vivo per Susanna"
"Lei vive per te? Ti basta Susanna?"
Il ragazzo si alzò, deluso, pensando alla pazzia della donna.
Imbronciato e deluso andò verso casa di Susanna. La volle vedere a tutti i costi.
"Susanna, ti devo guardare bene per capire se ti amo, se sono ancora innamorato di te."
Lei lo guardò attentamente e gli disse: "Ci conosciamo?"
Il ragazzo si tolse il cappello, lo appoggiò tra le braccia di Susanna. Uscì dalla casa.
Lo aveva capito. Non era Susanna il senso.
Tornò a casa. Divano, nanna.
Prese la macchina, si ricordò di averne una.
Andò in centro, da Alice, al lavoro. 24, 25, 26, 27 …ecco il piano. Erano belli i grattacieli. Gli ricordavano che il cielo ci abbraccia sempre. Vide Alice.
"Che ci fai qui?"
"Volevo dirti che Susanna… lei non mi conosce. Non ci siamo mai davvero guardati"
Si girò e corse più veloce che poté verso la fine del corridoio e, giunto alla finestra, saltò nel cielo della città.
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