"Quaderni americani" | ny
Solo in momenti come questo si fa più forte il concetto di casa: quando una pioggia opprimente e grigia di metropoli incombe sui miei occhi perdutamente viziati di cielo, il tè è troppo caldo (e mai più come in questi giorni difficile da scrivere o pronunciare) e la hall di un albergo è divenuta scomoda e improvvisata sostituta del mio buco di scrittoio casalingo.
Ciononostante stupore e spaesatezza giocano la loro partita al pareggio ed il loro tempo riesco, forse non completamente come vorrei, a scandirlo e tenerlo nell’ordine delle mie cose. Nella partita col tempo sono probabilmente favorito dalle mie due “armi” migliori: la mia reflex e la chitarra: l’una può, seppur nel breve intervallo di tempo e spazio combinati da diaframma e otturatore, illudermi di fermare momenti di vita, brandelli di tempo su istantanee preziose e rivederli, forse riviverli, sicuramente imprimerli più forte al cuore; l’altra è la mia piccola amica che come una macchina spazio-tempo riesce a far passare piacevolmente quel tempo in cui si vuole la spensieratezza a dirigere l’orchestra. Entrambe sono vento ed àncora, aquilone e pietra su cui si incide ed usura il mio tempo libero che da quel momento libero non è più.
Dove sono i miei compagni di viaggio in tutto questo mio peregrinare dubbioso e solitario per vie che non ricordo di ricordare? - (per la verità sono tutte uguali: croci d’asfalto recintate da immense e multiformi neo-Babely’s Towers con cui l’uomo medio sfida per l’ennesima volta la volta celeste - nelle sue pose inesplose - o meglio grigia di questi giorni); alcuni si perdono ogni tanto, poi li ritrovo, poi si riperdono, altri forse non li ho mai trovati e i loro posti vuoti vengono, con mio grande piacere, occupati da quella piccola cerchia di persone che per mia abitudine difensiva ho selezionato e avvicinato mag- giormente di altre.
Solo in momenti come questo la deriva dei continenti sembra gravare sulla nostalgia dei luoghi e delle persone allontanate dal baratro di quest’oceano, così sconfinato, così freddo come il mare delle parole non dette, quelle raggelanti, quelle affogate, quelle incomprensibili perché senza fiato, senza voce, senza suono; quelle amiche e vicine, quelle giuste al momento giusto (rare): mai avuto tanto il bisogno semplice dell’aria di casa.
Sfavillano le torri e i ponti, percossi i passanti, quasi in fuga, dai tam tam delle metro ed esonerati dai momenti di pausa. Camminare adesso stanca. Consuma piedi ed occhi, ma la macchina da presa (anche quella biologica) non è ancora stanca e ogni angolo di Times Square è un ottimo pretesto per restare. Nessuna faccia conosciuta all’orizzonte, eppure c’è tantissima gente a percorrere queste stesse strade, come il lungomare di Mondello nei periodi estivi, come piazza Politeama nelle sere dei giovani: però più in grande.
La metro mi percorre, le vie dei pensieri silenti ai seggiolini di prima volata sono poco affollate, mi lascia stordito di porte scorrevoli (sliding doors) e sferrosità di fretta (neo coniata: sfrigolio+ferroso, eh... si! Per descrivere le cose di questo posto bisognerebbe inquinare il mio dizionario di termini nuovi!) e poi dov’è il sole? Chi se l’è rubato? è stato trafitto e ucciso per sempre dalle guglie di scarso gotico dell’Empire Bldg o è rotolato via dall’altra parte del mondo (infatti a casa mia adesso, mi dicono, fa un caldo tre- mendo!). Dante crederebbe d’essere all’Inferno perché qui non arrivano i raggi del “Pianeta che mena dritto altrui per ogne calle” e questa valle è la più lontana che lui avrebbe potuto pensare. Le cartoline è inutile spedirle da qui. Arriverebbe come pensiero in differita, molto fasullo.
Le camere tutto sommato riescono a restare in un mistico silenzio durante il riposo notturno e dall’alto di questi quindici piani il tempo sembra scorrere come in simultanee carrellate di camera lungo le vie perpendicolari pratiche e incrociate che sanno dove andare, non conosco la loro velocità ma da quassù tutto è separato, ben delineato, settoriale. Intanto il tempo delle mie camere con vista passa lento e piacevole in compagnie gradite di musica e amici. Ora lo sguardo è pian piano riempito dalla gente che anche a mezzanotte riempie l’angolo del sushi. I giornali del nuovo giorno danno notizie in dormiveglia, (come la mia: segretissima e silenziosa di un orizzonte nuovo, di persone differenti e forse di affetti nuovi, mutati, maturati, sussurrati solo a me stesso), notizie in dormiveglia per il giorno che sta arrivando e la gente tesse questa enorme ragnatela di fili rossi delle loro azioni. Ogni punto è precisamente legato ad un altro, ogni persona apparentemente lo è, ogni vicolo e negozio, ogni auto o scuolabus sono fusi instancabili dell’abile tessitrice di storie che è questa città: nel suo alternarsi di sensazioni, umori, odori, colori, suoni è una buona corruttrice-attrice dei suoi mille teatri di Broadway, sempre sotto i riflettori que- sta gente, atletici divoratori di tempo nati e cresciuti nella cattività di una gabbia in ferro e cemento dove batte sempre un falso sole, anzi mille e mille e mille soli falsi di lampadine, mille soli che non scaldano ma tengono in una eterna veglia, mille soli che avvicinano anche di notte nell’illusione di essere in un universo di quei mille soli, mille modi di essere soli, io e gli altri, soli insieme.
L’alba arriva ai piedi del mio letto solo oggi, dopo essere stata riflessa per una serie interminabile di volte dalle finestre a specchi dei grattacieli limitrofi ed essersi confusa con le lumiere pubblicitarie della piazza e delle strade, sembra quasi per giorni e giorni prima di arrivare qui dentro, su di me che riflet- tevo già il suo probabile essersi persa. Sono appena le 6:30 del mattino e la stanza, come il resto della compagnia stretta, ancora dorme e nel suo immobile e sarcofagile riposare i pensieri sul da farsi si avvi- cendano in fila, appena appena offuscati di primo mattino, per poi arrivare distillati alla lettura della mia memoria volontaria come staccatisi da grappoli ricoperti di brina per la gelata notturna. Non mi viene in mente nessun modo per non disturbare i dormienti e seppur con un accennato senso di rispetto per il loro dormire (configurato nel felpato scansare il labirinto di letti e valigie, di scarpe e cianfrusaglie varie acquistate a Chinatown), non faccio altro che provocare un quasi continuo, seppur grave e atonale, as- solo per basso che desta a tratti l’attenzione dei compagni dai fumi onirici delle loro scampagnate REM.
Mi ripresento a me stesso, davanti allo specchio del bagno. Oggi come ieri, come domani forse se non ricorderò più chi sono, se mi sembrerò cambiato: prima di svegliarmi non faccio altro che ricordare i volti di chi ho incrociato per qualche istante per strada (per fatalità o destino) e mi ci disperdo.
La tendina di plastica opaca della doccia sfruscia leggermente sul pavimento in modo che non si allaghi, sebbene fosse quasi sempre umidiccio e ormai pronto, con un po’ di sonno ancora sugl’occhi, giro con la mano sinistra la manopola dell’acqua. Un gesto così fortemente sentito questo che non si è lasciato sottovalutare: nel breve tempo di una semi rotazione di angolo piatto mi accorgo quanto sentore di controllo s’insedia in me sul piatto freddo di quella doccia: il compiacimento e l’orgoglio come di secoli e secoli di ricerca e di tecnica, quasi che oltre la parete si celasse fra gli interstizi di calcestruz- zo e laterizi una sorgente personale e pronta all’uso, sottomessa al mio volere; si racchiude nel gesto rotatorio della mia mano, tanto sottovalutato o forse non pensato in quel modo per anni, un traguardo umano di dominio e compiacimento: richiamare l’acqua a sé!
Come se le lunghe vie dell’acqua dell’antica Roma, i “qanat” dei deserti dell’Iran che si aggrovigliano per decine e decine di chilometri nel sottosuolo e sbucano in superficie con una precisa regolarità di pozzi, il sistema ordinato e complesso di chiuse del grande stretto di Panama concorressero all’obbiettivo e traguardo umano di sconfiggere la forza di gravità dei quindici piani della mia stanza d’albergo e portare, al movimento deciso della mano, una carezza filiforme di ninfe acquatiche che scende da venti centimetri circa d’altezza, sulla mia testa, a sfiorarmi la pelle nel solo ansimato e quanto mai ricercato secondo di tempo. Un modo radicale per scrollarmi di dosso gli ultimi pensieri del sonno e del mio viaggiare notturno e riallacciare violentemente i contatti con la realtà delle cose che mi circondano da quell’istante in poi.
Mi vesto e lo sbattere di porta che mi segue per i corridoi mi fa dispiacere per un attimo: “e se ho sve- gliato qualcuno?” – penso –ma dopo aver stretto i denti e socchiuso gli occhi riparto autosollevandomi dalla colpa: “prima o poi devono svegliarsi tutti!” – e mi dirigo all’elevator.
La hall è deserta, solo il portiere e pochi facchini danno cenni di vita, salvando le apparenze di odio e stanchezza dei continui e ripetuti “good morning”, mi accomodo sui divani vicini alla reception e nel controllare il mio armamentario di ferma-tempo, dispongo sul tavolino la macchina fotografica, i miei quaderni, le brochure collezionate giorno dopo giorno per la strada, ai musei, i miei tascabili da tram o parco pubblico, il mio ipod e le poche fotografie care che ho sempre nelle tasche a ricordarmi di non essere mai troppo lontano.
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