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Tetouan: tra caos, silenzio e misteri da svelare

Pubblicato da flag-it Chiara Ferrante — 6 anni fa

0 Tags: flag-ma Esperienze Erasmus Tetouan, Tetouan, Morocco


Quando si viaggia tutta la notte, fermandosi solo per prendere qualche sferzata di aria gelida sul volto e per fare la fila al bagno delle donne per più di venti minuti, sembra di stare su una piccola, soffice nuvola, di guardare tutto dall’alto, come se quello che  sta succedendo, in verità, non stia capitando nella vita reale, ma solo in un sogno, che, presto, si dimenticherà.

Sarà stata la stanchezza del viaggio -prima, in un bus scomodo, con sediolini vecchi e schienali non del tutto reclinabili, poi, in Fast Ferry, che in un’ora e molte onde trasporta i passeggeri da un continente all’altro-; sarà stato l’arrivo della notte, l’essere tornati, stremati e felici, sul pullman; sarà stata la magia del Marocco e la voglia di arrivare il prima possibile in albergo, ma quella sera porterà per sempre con sé qualcosa di inaspettato e incantato.

Partimmo da Salamanca, ridente città nel nord-ovest della Spagna, dove studiavamo –o così si supponeva-, chi in Erasmus, chi in Intercambio, chi per tutti gli anni universitari. A due ore di treno da Madrid, Salamanca si specchia sul fiume Tormes come una vecchia signora la cui bellezza non sfiorisce con gli anni, anzi, aumenta, così come aumenta il suo fascino di eterno buon gusto e di leggiadra armonia. La chiamano la “Dorada”, ma nemmeno un nome tanto raffinato rende giustizia a quello spettacolo che si apre davanti agli occhi del passante, quando, camminando per le strade linde del centro, arriva alla Plaza Mayor, un parallelepipedo perfetto che ha fatto da modello alle più importanti piazze di tutta la Spagna. I suoi colori dorati, come la sabbia del deserto, sono illuminati dai lampioni che la fanno risplendere come una gemma preziosa in un forziere dei pirati. Ai lati della piazza, sotto i portici che la percorrono in tutto il suo perimetro, sono situate quattro uscite, ognuna delle quali conduce ad una strada diversa, dalla più nuova Calle Toro, via commerciale, trafficatissima nei pomeriggi invernali, dove studentesse e lavoratrici, con grandi buste in mano, si aggirano tra las tiendas (i negozi) di varie e rinomate marche, muovendosi con velocità tra gli eleganti abiti a prezzi scontati e i riscaldamenti accesi al limite massimo consentito; fino alla più ampia e trafficata Gran Via, sede, tra l’altro, di Correos, le Poste centrali spagnole –scoperta fatta solo al mio ritorno dal Marocco, nel tentativo di inviare le cartoline ai miei familiari, impazienti di scoprire i miei spostamenti-.

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Allora, se si vive in una città così bella, che bisogno c’è di andare fino in Marocco, partendo -ovviamente di corsa e col fiatone, a causa mio acclarato ritardo- armati di valigie capienti e curiosità, per buttarsi in una stancante avventura, lunga cinque estenuanti giorni? Forse, perché lo spirito del viaggiatore seriale colpisce inaspettatamente; forse, proprio per quella curiosità irrefrenabile, perché la sete di sapere, di vedere, conoscere, indagare che prende quando si va in Erasmus è implacabile; forse, perché ci eravamo convinte a vicenda, io e la mia coinquilina, a fare quell’esperienza insieme, che -avremmo scoperto- ci avrebbe legato più di mesi e mesi di convivenza in meno di “40 metri quadri, centrali, arredati e da poco ristrutturati”, come indicava l’annuncio dell’agenzia immobiliare.

Quella sera, dicevamo, vale la pena di essere raccontata. Era il 29 Ottobre 2016. Il viaggio, iniziato il giorno precedente, alle 22:00, era stato organizzato appositamente per il ponte del primo novembre, giorno festivo, tanto in Italia quanto in Spagna, che, quell’anno, cadeva di martedì. In effetti, l’idea di partire di notte fu favorevole a chi, come me, doveva frequentare i corsi anche il venerdì mattina -cosa che, in Spagna, dovrebbe essere costituzionalmente proibita, vista la tradizione universitaria di fare baldoria il giovedì sera- così da non perdere la lezione.

Arrivati in Marocco, fummo immediatamente sorpresi dalla “stranezza” del continente, a partire dal caldo inaspettato con cui ci accolse, soprattutto se comparato ai 2° lasciati in quel di Salamanca –Sì, perché chi pensa che in Spagna faccia sempre caldo, evidentemente, non è mai stato a Salamanca!-. La sensazione di euforia, data dall’evidente mancanza di sonno, ci trasportò subito in un clima da gita scolastica di terza media, quando due giorni senza i genitori sembravano un’infinità di tempo o, meglio, da ultimo anno di liceo, quando si credeva che tutto stesse per cambiare, si viveva di attese e di speranze, di sogni ad occhi aperti e di quotidiane scoperte.

La ricca vegetazione di Ceuta, con verdi cespugli e palme altissime, ci diede il benvenuto nell'inesplorata terra africana, ma quel paesaggio, seppur così esotico, ancora non soddisfaceva completamente la nostra curiosità sulle tradizioni tipiche del Paese, poiché troppo “occidentalizzato”. «In realtà siamo ancora in Spagna» si affrettò a sottolineare la guida, spiegandoci che, anni prima, con un referendum, gli abitanti di Ceuta proclamarono l’appartenenza territoriale della città alla Spagna, consegnandola alla corona di Juan Carlos, poi, continuò dicendo di rimpiangere i tempi del generale Franco, lasciandoci alquanto perplessi, ma forse, questa parte della storia è meglio dimenticarla.

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Poche ore dopo, lasciammo l’azzurro mare e la brezza leggera, per addentrarci in quella che sarebbe stata la nostra prima vera meta marocchina: Tétouan, teatro del surreale avvenimento di cui voglio parlarvi.

Tétouan ci si presentò, da subito, totalmente bianca, candida, abbagliante sotto il sole a picco delle tre di pomeriggio. Tutto, appena giunti, ci apparve incolore, perfettamente lindo e rilucente, tanto da farci capire il perché del suo soprannome “Paloma Blanca” (Colomba Bianca). I flash delle macchine fotografiche disperdevano la loro luce  in tanti piccoli  fasci, che risultavano meno splendenti rispetto alla pietra di cui era ricoperta tutta la cittadina. Non c’era un solo angolo, un solo luogo che presentasse una lieve sfumatura di colore; gli occhi ci bruciavano davanti ad una bellezza simile, il contrario di ciò che accade a Salamanca, in cui il contrasto tra luce e ombre è più morbido e dà il tempo allo spettatore di abituarvisi senza fretta. Nella grande piazza di Moulay El Medhi, in cui la nostra nuova guida ci fece fermare per presentarsi a noi, l’unico colore visibile era il bianco, come un caleidoscopio non funzionante, perché, sebbene attraversato dalla luce, non convergeva nei toni del celeste, del rosso, in tutte le gradazioni dell’arcobaleno, ma restava puro come il vestito di una sposa. Distese di bianco si spalmavano sulle colline circostanti, si intravedevano piccole pennellate di verde delle palme e di qualche tessera del mosaico, che ricopriva un quadrato al centro della piazza, sotto una specie di tempietto con colonnine strette e lunghe, poi, altro bianco. Un sole enorme e fluttuante nel cielo perfettamente sgombro da nubi, ci fece perdere la testa tra quello splendore, quella chiarezza, quelle file di immacolate case, palazzi, hotel e moschee.

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Tutto si univa e, pian piano, si dissolveva, come in un quadro di un pittore stanco, che preferisce lasciare la tela pura, piuttosto che macchiarla con toni forti. La perfezione è semplice, è sacrale, come Tétouan, enorme sposa, non pomposa nel suo abito da Cenerentola, ma raffinatamente mesta, nel suo abito da serva fedele. Ecco perché essa mi apparve come l’opposto di Salamanca: se lì, in quella che, per sei mesi, sarebbe stata la mia città, l’occhio si immerge lentamente, come un nuotatore in una piscina dorata, fino a sprofondare nei bagliori delle luci dei lampioni, che contrastano dolcemente con lo sfondo nero del cielo notturno; qui, il cielo, di un celeste intenso, può poco o nulla di fronte a tanta magnificenza di luci, non artificiali, bensì naturalmente date dai raggi solari e dalla candidezza delle abitazioni, davanti a cui anche l’uomo, irrefrenabile assertore della sua superiorità, comprende i suoi limiti, costruendo nulla più che poche panchine a contornare la piazza e qualche ancora più raro lampione qua e là, come a dire: “La vera luce viene da dentro”.

Inutile dirlo: la città ci aveva già stregato, entrando nella nostra mente per sempre. Nessuno di noi, né dall’Italia, né dall’Ungheria, né dal Messico, né dal Porto Rico, riusciva a credere ai suoi occhi. Nessuno aveva voglia di parlare, ma solo di catturare quelle immagini nel modo più veritiero possibile, per non dimenticarle mai più. Ma l’aura di sacralità, che circondava la piazza, ben presto, svanì e, al suo posto, crebbe in noi l’irrefrenabile necessità di occidentalizzare occhiate, sorrisi invadenti, urla e odori nauseabondi. Jamal, la nostra guida, un uomo magro, con due baffetti da topo e gli occhi vispi di chi è abituato a stare davanti ad un folto pubblico, ci radunò tutti al centro della piazza e ci invitò a seguirlo sempre, ovunque e attentamente: «Perdersi nella Medina e nello zoco (mercato) è facilissimo, mi raccomando, discrezione!» “Troppo tardi, Jamal!” gli avrei voluto dire, “la discrezione non è il nostro forte, a quanto pare!”. Infatti, tutti, lì attorno, ci avevano tenuti d’occhio fin dal nostro arrivo, fissandoci in modo evidente e poco cortese, o  almeno così ci apparve, inizialmente, perché, poco dopo, scoprimmo che  in Marocco, guardare insistentemente la gente straniera è segno di mera curiosità, non certo di maleducazione. «Il mercato e i quartieri degli artigiani sono il luogo più caratteristico della Medina di Tétouan, che è certamente la più bella città del Marocco e non lo dico perché è la mia città natale, ovviamente…»  spiegò Jamal, in uno spagnolo quasi perfetto, seppur reso particolarmente divertente dal suo strano accento arabo. «Adesso, però, attenzione!» seguitò «Parlo alle ragazze: in Marocco non esiste la concezione di amicizia tra uomo e donna, se un ragazzo marocchino vi si avvicina è perché cerca una moglie, quindi potete decidere: o non dargli confidenza o preparare l’abito nuziale… a proposito qui esistono negozi appositi per il cucito e, soprattutto, per comprare tutto il necessario per un matrimonio tradizionale.» Ridemmo tutti, convinti scherzasse, ma poi proseguì il suo sermone con una inaspettata serietà: «Lo dico soprattutto a voi bionde, qui siete come perle rare!» ammonì, indicando un gruppo di tedesche dalla pelle bianca come il latte e dagli occhi verdi, le quali si guardarono tra loro un po’ spaventate.

«Ah, que ansiedad!» non poté evitare di dirmi la mia coinquilina, un’ungherese, anch’ella bionda, dai lineamenti gentili e dagli occhi chiari. Convenni, accarezzandole il braccio per cercare di tranquillizzarla. «Ragazzi» concluse Jamal «non fermatevi con nessuno, non comprate nulla dagli ambulanti e soprattutto non restate indietro, dovete stare sempre all’erta per non perdervi!».

Perdersi in quelle stradine tanto irte e strette, brulicanti di una quantità indefinita e indefinibile di persone, vestite nei loro lunghi abiti coprenti e scuri, più che facile sembrava inevitabile. Non credo di essere mai stata tanto concentrata a seguire qualcuno, come in quel piccolo e tortuoso agglomerato urbano, che si inerpicava tra i vicoli bui e ripidi, tutti palesemente uguali a se stessi. Jamal, scattante come una cavalletta, non si vedeva già più all’orizzonte. Scartava un bambino che voleva vendergli ninnoli di poco conto, salutava una signora completamente avvolta nella sua pashmina color caffè, guardava, di tanto in tanto, alle sue spalle, per vedere dove fosse la fila di ragazzi e ragazze in jeans e maglietta bianca con tanto di scritta “Salamanca”, giusto per non farsi affatto riconoscere come turisti. E noi stavamo lì, rincorrendolo e dribblando i passanti, come un bambino che cerca di catturare le farfalle, in un enorme prato, senza calpestarne i fiori. Poi, ad un tratto, si fermò davanti ad un arco di pietra marroncina, ci guardò tutti negli occhi –o almeno questa fu l’impressione che ci diede- e disse: «Adesso ci addentriamo nello zoco, il mercato, come lo chiamate voi. Questi due signori sono miei amici, ci aiuteranno ad attraversare la città, ricordatevi di loro! Vi daranno delle foglioline di  menta, odoratele se ne avrete bisogno.» Altro che amici! Scoprimmo in seguito che si trattava di due guardie del corpo, vere e proprie, pronti a salvarci in caso di pericolo, il tutto, però, ci venne taciuto fino all’uscita dalla Medina. Forse, questo particolare avrebbe potuto preannunciarci ciò che avremmo di lì a poco vissuto.

Raccolta la menta e valicato l’arco, lo scenario che si presentò davanti ai nostri occhi ci lasciò stupefatti, di nuovo. Stavolta, però, lo stupore era ben diverso da quello provato al vedere lo splendore della piazza di Paloma Blanca, qui, la sorpresa si trasformò presto in assoluto sgomento. Come può una città così pura e accecante, nel sole del primo pomeriggio, diventare una sorta di labirinto lercio e maleodorante nel giro di meno di trenta metri? In pochi passi, la situazione era completamente cambiata: “Dal Paradiso agli Inferi in due semplici mosse”, avrebbero titolato i pubblicitari. Ci ammutolimmo, di nuovo, questa volta, perché le parole non avrebbero potuto esprimere lo squallore nel quale eravamo piombati. Uomini dal volto scuro e poco rassicurante ci squadravano dalla testa ai piedi, mentre passavamo loro vicino, fin troppo vicino, dato che le strade si stringevano sempre di più, ridefinendo in chiave tragicomica il concetto di privacy, soprattutto a causa della massiccia presenza di ambulanti e bancarelle di ogni tipo. Dietro di esse, i venditori urlavano frasi incomprensibili per invitarci a comprare, una sorta di corrispettivo marocchino di “So frisc e so bell accattatev sti friariell!”. Qualcuno di loro, invece, capì la nostra provenienza e iniziò a parlarci in spagnolo, cercando di attirare la nostra attenzione. Distese di cibarie sconosciute ed esotiche si mostravano al nostro incredulo sguardo, neppure i rivestimenti di vetro o plastica che li contenevano riuscivano a tener lontane le mosche, che se ne alimentavano, accrescendo la loro stazza a vista d’occhio -o questo fu ciò che ci apparve-.

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Il disumano gridare dei signori dalle bancarelle penetrò nei nostri timpani con velocità e forza inaspettata e si fuse alla perfezione con un altro gridare disumano -di nome e di fatto-, quello delle oche, chiuse in minuscole, luride gabbie arrugginite e poste direttamente davanti ai banchi dei macellai, pronti a ucciderle o venderle al miglior compratore. Alcune loro simili, ancora ricoperte di piume, se ne stavano penzolanti ai lati del banco di legno, con un cappio al collo, legate le une alle altre, in una fila di mestizia e nefandezza. Poco più oltre, un enorme gancio di acciaio tratteneva il capo peloso e triste di un cammello, di cui si potevano riconoscere, ormai, solo la testa e gli zoccoli, mentre il resto del corpo era, in parte, attaccato all’uncino, in parte, ridotto in costolette ed esposto in bella vista tra i polli e la carne di capra. La gabbia toracica ancora conteneva gli ultimi brandelli di carne prima di essere completamente disossata e pareva trattenere in sé l’ultimo rantolo del povero animale, di cui tutti provammo pena. Diedi una bella sniffata alla mia fogliolina di menta, fin quando le narici rimasero completamente inebriate e stordite da quel profumo intenso, tanto da non riuscire più a percepire l’olezzo dei cadaveri che davano bella mostra di sé attorno a noi. Le strade continuavano a infittirsi di una popolazione tutta uguale a se stessa, distinguere le donne dalle ragazzine, i bambini dagli uomini era difficilissimo in quello spintonarsi perpetuo, in quel chiedersi scusa senza sapere bene che lingua parlare, in quella commistione di colori, suoni, odori e di ruoli, che portava i bambini a vendere souvenir a basso prezzo e le ragazzine ad accudire i loro fratelli minori, mentre gli adulti guardavano mestamente la scena, seduti sulle loro sedioline di paglia. Quelli di loro che conservavano ancora la tranquillità e la giustificata nullafacenza dell’infanzia ci scorrazzavano attorno, incuriositi e felici, rubacchiavano qualche dattero dalle bancarelle dei loro padri, oppure restavano attaccati alle gonne delle loro madri. Così, tra la confusione, le chiacchiere, qualche foto ricordo e gli sguardi attoniti dei presenti, la guida ci condusse fuori dal dedalo e la magia -quella vera- ebbe inizio.

Era ormai scesa la sera, salutammo gli scagnozzi  di Jamal, salimmo sul pullman e ci posizionammo come avevamo fatto durante il viaggio d’andata. «Pasillo o ventana?» mi chiese la giovane ungherese, per capire se preferissi stare vicino al corridoio o al finestrino, ma non ebbi neanche il tempo di scegliere che, nella fretta di trovare posto, finii vicino alla ventana. Approfittando della vista di cui godevo, mi voltai per guardare, per l’ultima volta, la città che ci aveva ospitato quell’intenso pomeriggio. La strada in cui ci trovavamo era la stessa che avevamo percorso per andare alla piazza bianca e, la prima volta che l’avevo attraversata, non avevo notato che pochi negozi, qualche bar -frequentato ovviamente solo da pubblico maschile-, due attività di cambio del denaro - dove ci eravamo fermati, appena avuta l’occasione, per convertire pesos e euro in dirham-  e qualche bancone di dolci, posto giusto al bordo della trafficata via principale. Mi ero quasi abituata all’idea di trovarmi, nei giorni a venire, di fronte ad altri abiti larghi e scuri, ad altre facce inespressive e stanche, ad altre pashmine marroni e spessi burka, quando, nel buio della sera, scorsi qualcosa che mai mi sarei aspettata di vedere in un luogo simile: ragazze, bellissime, magre e ingioiellate, in abiti da gran sera con profondi spacchi e tacchi vertiginosi, accompagnate dai loro fidanzati, altrettanto eleganti nelle loro tuniche ricamate a mano, in attesa davanti ad un locale che pareva, a tutti gli effetti, essere una discoteca. C’era un uomo, più alto e massiccio degli altri, vestito distintamente, che presenziava all’ingresso, dove era stato posto un lungo tappeto rosso, che ricopriva buona parte del piccolo marciapiede, delimitato da una serie di paletti dorati, uniti tra loro da catene dello stesso colore. Il mio stupore fu tale, da non farmi credere a ciò che stavo vedendo. Mi voltai verso la mia coinquilina, chiedendole di guardare proprio in direzione del locale, ma, ormai, era troppo tardi: l’autista del pullman aveva ingranato la seconda e già ci conduceva verso il nostro hotel. Nell’abitacolo tirarono tutti un sospiro di sollievo e il silenzio, per la prima volta da quando avevamo iniziato la nostra avventura, calò completamente. Non una mosca volava, non un cellulare squillava, non un obbiettivo fuoriusciva dalle macchine fotografiche, emettendo il suo peculiare suono. Non osai domandare a nessuno dei miei compagni di viaggio se avessero visto ciò che i miei occhi faticavano a comprendere e il mio cervello, stanco e assonnato, tardava a metabolizzare. Una discoteca, appena fuori quell’inquietante e strabordante medina berbera, a due passi dalla piazza bianca più tranquilla del mondo! Assurdo, stupefacente, incredibile! Eppure, era lì e tutti aspettavano in coda, evitando di inimicarsi il buttafuori per assicurarsi di essere nella lista; tutti si sorridevano e parlavano amabilmente, creando una discreta confusione. Le coppie stavano a braccetto, le ragazze si sistemavano vicendevolmente i cinturini delle scarpe, stiravano con le mani le piegoline appena accennate dei loro abiti e guardavano i loro fidanzati con profondo amore. È forse questo il lontano, irrequieto Marocco di cui mia madre si era tanto preoccupata, prima di darmi il permesso per partire? È forse questo lo spaventoso mondo esterno dal quale ci hanno protetti fino ad ora, cercando di tenerci stretti nelle nostre case, ancorati alle nostre tradizioni? E così, in quel silenzio notturno, in un clima di stanchezza collettiva e meritato riposo mi fermai a ripensare a tutti i discorsi sulle diversità, sugli inconciliabili punti di vista tra “Noi” e “Loro”, come se fossimo due partiti che si sfidano alle elezioni, due eserciti sempre in guerra dietro barricate invisibili, come se non riuscissimo ad andare oltre il nostro naso, le nostre credenze, i nostri orizzonti, i nostri sogni di occidentalizzare un mondo diverso, sì, e proprio per questo magnifico e affascinante.

Così, soffermandomi sulla giornata trascorsa, ormai volgente al termine, mi trovai a ripensare al mercato, mi parve quasi di ritornarvici col potere e la forza che solo i ricordi portano con sé.

In un attimo, riaffiorarono nella mia mente immagini di donne in burka, di uomini senza sorriso, di sguardi penetranti e urla e cattivo odore e animali morti e bambini che correvano ovunque, di abiti nuziali, di botteghe e artigiani, di pellame puzzolente e di rocchetti di cotone di ogni tonalità di blu e giallo, di volti e di occhi che si intravedevano dalle pashmine sobrie, di orecchini tintinnanti, di carri trainati da asinelli, di urla, di gesti sconosciuti, di lamenti e mani imploranti, di sorrisi infantili, di sogni rubati, di vita semplice, di pane di sesamo, di datteri e fichi, di piedi veloci incastrati in sandali bassi, di sporcizia e piume di gallina, di cammelli morti, di gatti vivi e miagolanti, alla ricerca perenne di cibo e attenzione e, infine, di buio, di lampioni fiochi, di luci spente, di porte sbarrate, di foglie di menta e voci e volti e voci ancora.

Tutto si confondeva nella mia testa, forse a causa del lungo viaggio, che, dopo quasi dieci ore di escursioni e cammino, si faceva sentire, forse perché in tutta la mia vita non credo di aver mai visto così tanta gente, così tante persone vestite tutte di povertà e umiltà. Le mani sporche di henné, le facce stremate dal lavoro, i solchi sulla pelle di chi non è abituato a fermarsi mai, gli occhi stanchi, ma vispi, come quelli di Jamal, le voci squillanti di chi ha ancora tanto da dire e da insegnare, la voglia di correre verso i turisti, come fanno i bambini, puri d’animo e di intenti, per cui nulla dovrebbe essere precluso, per cui l’orizzonte è una linea ancora da tracciare e il futuro è tutto da scrivere, tutto questo e molto di più rendono il Marocco una continua, inevitabile scoperta delle radici del mondo, delle nostre origini, di quello che siamo stati e che, chissà, in fondo, ancora serbiamo nel profondo del nostro animo.

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Così, anche quella kasba, riflettendoci, mi apparve stranamente familiare e mi sorpresi a pensare che, forse, il Sud del mondo ha sempre trovato il modo per assomigliarsi e farsi riconoscere per ciò che è, senza filtri, senza orpelli, per arrivare dritto al cuore del visitatore. Il mercato della mia città sarà meno sporco dello zoco di Tétouan, ma non per questo i venditori ambulanti urlano di meno. I bambini della mia città saranno più istruiti, ma non per questo tutti loro hanno lo stesso roseo futuro di cui godevo io, alla loro età, e alcuni di essi sono stati abituati prima a imparare a memoria i prezzi della frutta e verdura venduta dai genitori, che le poesie di Natale o di Pasqua. Le vie della mia città, non saranno così buie e tetre, ma, nel centro storico, le traverse si assomigliano tutte e tutte sembrano assottigliarsi, per poi aprirsi in piazzette e rotonde; sembrano allargarsi e stringersi come piccoli fiumi che sgorgano nel mare e i ciottoli, a terra, sono così distanti gli uni dagli altri, da impedire il passaggio alle donne in tacchi e vestito da sera. E, infine, persino le signore dei miei quartieri, affacciate al loro balcone, se vedono estranei nel rione, li guardano fissi fissi, come fanno gli anziani marocchini, cercando di capire se sono in difficoltà, se si sono persi, per poi tornare a parlare fittamente con la loro dirimpettaia, anch’ella appoggiata con i gomiti all’inferriata del suo terrazzino, dal quale pendono panni appena stesi, che ancora odorano di sapone da bucato. “Tutti a dire: «Vai in Marocco? Ma le differenze culturali, le diversità etniche non ti spaventano?», «Sono retrogradi, non andare!», «Sono invadenti, urlano troppo, ti guardano come se non avessero mai visto un essere umano!»  Embè, vorrei rispondere, la signora Lucia, terzo piano, scala B, anche detta Radio-Condominio, ha sempre urlato, fissato ogni movimento pseudo-sospetto in tutto il vicinato e si è sempre impicciata degli affari altrui, eppure, nessuno le ha mai detto nulla! Siamo tutti uguali.” pensai, scuotendo il capo,“Siamo tutti dannatamente uguali, ma nessuno vuole sentirselo dire!”

Così, in quel ragionare confuso, socchiusi gli occhi e mi abbandonai al mio scomodo schienale; quando li riaprii eravamo appena arrivati in albergo, pronti per mangiare il couscous migliore che abbia mai assaggiato, ma sono sicura che, con un po’ di impegno, buono così, lo può cucinare pure la signora Lucia.


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