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Pubblicato da flag-ro Patricia Ioana — 9 anni fa

Era veramente la struttura architettonica più storta che avessi mai visto. Faticavo a credere come potesse reggersi in piedi. Vedevo la Torre Pendente in mezzo a quel immenso prato verde che chiamano il Campo dei Miracoli e non ci potevo credere. Il marmo delle superfici rifletteva il sole caldo di primavera mentre orde di turisti affollavano la stradina laterale superando le bancarelle dei venditori. La maggior parte di loro era di orgine asiatica, c'erano almeno quattro comitive di cinquanta persone tutte dietro alla guida che parlando al microfono spiegava ogni mistero e storia e miracolo di quel meraviglioso parco. Indicava un punto e tutti dietro, alzavano lo sguardo. Io invece ero da solo. Ero arrivata lì con il treno da Lucca della mattina, e in poco più di mezzora ero già a Pisa ad ammirare una di quelle strutture più volte candidate a guadagnarsi un posto tra le sette meraviglie del mondo. Secondo me se lo sarebbe meritato perchè in effetti la meraviglia era proprio il sentimento che ti suscitava a prima vista. Quei cinque minuti di vuoto completo in cui riesci a pensare solo “wow”. E pian piano che passano più la vista da un punto fisso (quello più interessante) si allarga su tutto il resto: lo scenario si costruisce arricchendosi di nuovi elementi e finalmente si fa completo. “WOW”.

La Torre di Pisa, detta Torre Pendente, altro non è che il campanile della Cattedrale di Santa Maria Assunta, cioè il Duomo, la struttura che tradizionalmente dà significato e rappresenta il luogo di riferimento di una città. Il motivo di tanta fama, chiaramente, risiede nella sua anomala inclinazione (di 3,97 gradi rispetto all'asse verticale) dovuta a un cedimento del terreno alla base, già ai tempi della costruzione. I lavori iniziarono il 9 agosto 1173, secondo i più da un progetto dell'ingegnere Diotisalvi (che oggi da il nome anche alla via della relativa facoltà) che nello stesso periodo stava costruendo anche il Battistero. Come era solito fare quando si trattava di costruire su terreni argillosi e cedevoli i progettisti decisero di far riposare il terreno per un anno prima di poggiare la prima pietra, ma questo evidentemente non bastò per assicurare la buona riuscita dell'impresa. Mentre la guardavo provavo a immaginare la sensazione degli architetti, che avevano impegnato tempo e energie ad evitare qualsiasi cedimento e alla fine si ritrovavano lì, davanti a quella Torre la cui pendenza non era percettibile solo ad altri esperti del settore ma ai passanti, ai bambini e oggi a tutto il mondo.

Una volta una ragazza italiana mi disse che l'assurdità per la gente del posto era essere diventati universalmente e inequivocabilmente famosi per un errore. E in effetti era una cosa che faceva sorridere, ma che si dimenticava pensando che la bellezza si riconosce e si contempla tanto più nei difetti che nella perfezione.

Mi avvicinai alla base della Torre, e iniziai a leggere i cartelli informativi che descrivevano il processo di costruzione, il passaggio di testimone a diversi architetti che non conoscevo, fino al complesso percorso di recupero e manutenzione più recenti per garantire la stabilità della Torre. Perchè, scoprii, nel 1990 c'era stato un concreto rischio che la torre crollasse. La sua inclinazione arrivò a 4,50 metri e per questo venne chiusa al pubblico. Con un esborso di 53 miliardi di lire (la moneta italiana precedente all'euro), si recuperarono ben 44 cm, il che permise e permette tuttoggi a milioni di visitatori giornalieri per farsi un giro fino alla sommità del campanile. Mentre facevo la fila per comprare il biglietto mi tornavano in mente le parole della mia amica italiana che pur studiando in quella città, non era mai salita sulla Torre. E quando le chiesi perché, mi raccontò di un'assurda superstizione secondo la quale gli studenti di quell'Ateneo non possono farlo finchè non conseguono la laurea “altrimenti porta sfortuna”. E ancora che cento giorni prima dell'esame di maturità delle scuole superiori, quelle che noi chiamiamo colegio, l'appuntamnto per tutti gli studenti della Toscana era in Piazza dei Miracoli per un insolito rito scaramantico: compiere cento volte una stessa azione. Le più gettonate erano: abbracciare cento sconosciuti, fotografare/si cento volte, toccare cento volte la Lucertola di bronzo a due code scolpita sulla porta centrale della cattedrale davanti al Battistero e ovviamente fare cento volte il giro della Torre di Pisa. Sono strani gli italiani.

Finalmente riesco ad arrivare alla biglietteria; l'ingresso è un po' caro ma non me en faccio un problema. La struttura è semplice: composta da due stanze principali, chiamate la Sala del Pesce, per via di un particolare bassorilievo e l'altra, la Cella Campanaria, collegate da tre rampe di scale a chiocciola che si fanno via via più strette man a mano che ci si avvicina alla sommità.

Il panorama da lassù è incredibile. Da una parte si vede la città, con le sue strade che si snodano tra borghi e piazzette, e dall'altra si torna sulla Piazza e quello che mi colpì di più in particolare fu la struttura del Duomo. Dall'alto era evidente il particolare della sua pianta, che disegnava un crocifisso, le cui braccia erano le navate laterali e il corpo quella centrale fermato nel mezzo da una cupola. Più lontano si scorgeva il Battistero, altro miracolo della Piazza, oltre che, avevo sentito dire a voce alta da una guida, quello più grande d'Italia, con una circonferenza di 107,24 metri, una larghezza della muratura alla base du due metri e 63 cm, e un'altezza di 54 metri.

La Piazza era poi costeggiata d'un fianco da un altro edificio: il Camposanto. Ovvero quello che originariamente era adibito a ospitare le spoglie dei nobili della città e che ora rappresentava una nota imprenscindibile di quel concerto architettonico. Soddisfatto di tanta maestosità scesi dalla Torre, (e non posso nascondervi una certa vertigine), per dirigermi a passeggiare un po' tra i percorsi turistici disposti. Passai davanti ai singoli edifici, ammirandone le facciate. Lo stile dominante era il gotico, con elementi trasversali alternati a colonnati verticali che si ripetevano in diverse serie. La percezione immediata era quindi di uno studio complesso. Il tutto culminava in una componente unica (una cupola o un asse) che si levavano al cielo a un'altezza impressionante. E questo mi fece pensare a come gli edifici religiosi rappresentassero una tensione dell'uomo a Dio direttamente proporzionale alla sua altezza. Poi pensai di doverci dare un taglio con la filosofia di prima mattina.

Ormai era quasi ora di pranzo. In breve ricevetti la chiamata di una ragazza, Alessandra, che avevo conosciuto tramite amici in comune. Adesso avevo un appuntamento: tra un quarto d'ora, “da Stelio” in Piazza Dante. Era stata abbastanza chiara sulle indicazioni: imbocca Via Santa Maria, segui dritto per circa 10 minuti, ti troverai sul lato sinistro della strada, la Facoltà di Lettere, entra, attraversala fino a sbucare dall'altro lato della strada. Prosegui dritto e ci sei. Da lì chiedi, tanto Stelio lo sanno tutti dov'è”. Benchè mi fidassi, avviai comunque Google Maps.

In effetti, la prima persona a cui chiedi di Stelio, mi rispose come se non li avessero mai posto domanda più ovvia. “Come, non lo sai? No sei di qui eh?”, mi prese a braccetto girandosi in direzione di un piccolo locale stretto tra un'alimentari e un ristorante con i tavolini fuori “eccolo lì, Stelio! E buon appetito!”.

Alessandra era già davanti alla porta ad aspettarmi, quando lo raggiunsi. Si presentò con fare sicuro e accogliente e mi invitò dentro il locale. Notai subito quanto fosse decisamente affollato per le sue dimensioni. Potevo contare almeno dieci tavoli stipati in nemmeno tre metri di larghezza. In pratica era come mangiare tutti allo stesso tavolo, ma forse era questo il bello. Il cameriere salutò Alessandra con un cenno della mano e le indicò un piccolo tavolo nell'angolo già occupato da un signore, sull'ottantina. Facendosi spazio tra le persone che vociavano lo raggiungemmo e ci sedemmo con lui. Alessandrà ci presentò rapidamente, si chiamava Pino. Mi spiegò poi che è un personaggio molto noto a Pisa, che gira per la città cantando a ritmo di versi a tutti i passanti con la sua chitarra un po' scordata di legno massello, un po' rovinato sui bordi. Quindi sedersi con lui è un'abitudine senza appuntamento. Mentre parlavamo, tornò il cameriere che iniziò a elencare il menu del giorno. Pennette al pesto, spaghetti al sugo di funghi, tagliatelle di cinghiale o lasagne fatte in casa; di secondo ci offrì cacciucco, polpette al sugo, frittura di pesce, salsiacce e faglio, stinco di maiale arrosto e verdure varie per chiudere poi con un budino al cioccolato, torta della nonna o alle mele, vino e ammazzacaffè. E un buon bicchiere del vino della casa, ovviamente. Io optai per le lasagne e le polpette, e budino al cioccolato ma niente caffè. In Italia sembra una cosa strana, rifiutare un caffè. Ti guardano come fossi un alieno, o almeno sicuramente non italiano. Quando se ne andò ripresi a parlare con Alessandra e nel frattempo mi guardavo attorto. C'erano diversi articoli di giornale incorniciati alle pareti, in particolare di due: La Nazione e Il Tirreno, che scoprii essere i due principali quotidiani e quindi rivali della città. I titoli, in pratica, esprimevano lo stesso concetto: riconoscere a quel piccolo buchetto gastronomico una storia e una tradizione popolare importante, mantenuta negli anni, che riusciva a unire allo stesso tavolo professori universitari e studenti, operai e disoccupati, vecchi e giovani. A Pisa è più che una trattoria popolare, è un'istituzione. E il protagonista è lui lo chef Stelio, arzillo ottantenne ancora in attività che da 50 conduce la cucina che ha visto la luce il 15 febbraio 1965.

I piatti arrivano in fretta, veloci e buonissimi. La cucina è tipicità toscana pura: rustica, saporita e appetitosa. E la compagnia pure. Benchè avessi pochi problemi con l'italiano, in quel momento faticavo a capire certe espressioni dialettali che si scambiavano Pino e Alessandra mentre parlavano dell'ultimo scandalo politico. Poi di colpo lui aveva imbracciato la chitarra e si era messo a cantarle una canzone, le diceva “hai gli occhi belli”. Poi si era alzato e si era avviato alla porta continuando a schitarrare mentre la gente per un momento sospendeva i loro animati discorsi, e in un attimo era sparito dietro la porta.

Alessandra mi parlò un po' della città. Mi raccontò di come tutto lì girasse intorno all'Università, in primis l'economia. “In centro ti renderai conto che sono quasi tutti studenti universitari, anche di altre parti d'Italia, perchè le famiglie pisane vivono un po' fuori e prova a notare quanti bar di panini, e pub ci sono, per non parlare delle copisterie”. Questo la rendeva una città a misura di ventenne, con un centro storico concentrato e strategico. Mi spiegò che l'edificio dall'altra parte della strada si chiamava La Sapienza, ed era la sede storica della Facoltà di Giurisprudenza. Era enorme. Le mura si alzavano imponenti per due piani, disegnando una pianta quadrata e raccogliendo al centro il chiostro intorno al quale si alternavano le diverse aule di lezione. Avrei voluto visitarlo ma purtroppo, continuò Alessandra, era chiuso al pubblico da due anni per problemi strutturali emersi dopo un terremoto. Poco lontano c'era la via più pittoresca della città: Borgo Stretto. Lì sotto piccoli portici di mattoncini c'erano tutte le boutique delle grandi firme ma anche storiche pasticcerie, come Salza, che avevano belle vetrine composte di sculture di cioccolato, frutta di marzapane e bignè farciti. Da lì in direzione del Ponte di Mezzo che divideva le due sezioni della città (Mezzogiorno e Tramontana di cui parlerò più in là), sulla destra, una piccola stradina conduceva a una delle piazze più popolari: Piazza delle Vettovaglie. Di giorno era la piazza del mercato che ospitava bancarelle di indumenti di seconda mano e fruttivendoli e la sera era il punto di snodo di quella che chiamavano “movida”. Vi si affacciavano almeno sei o sette locali tra birrerie , enoteche e pub e la notte si riempiva di persone da non riuscire a passare. Era lì che mi avrebbe portato quella sera. Mi parlava degli amici che mi avrebbe presentato, di come li aveva conosciuti, i loro momenti più divertenti, le loro serate tipo e in men che non si dica arrivò il magico capitolo delle biblioteche. Questi luoghi, affascinanti e raffinati, nascono in tutto il mondo e in tutti i tempi per il regale principio di diffondere la cultura. Sono, nell'immaginario collettivo, posti (meglio ancora anfratti) in cui un numero tot di scaffali zeppi di libri si alternano ad altrettanti tavoloni da studio illuminati da forti lampadine da scrivania, dove il tipo medio che pensi di incontrare è una specie di Harry Potter affetto da acne. Poi, se inserisci questo elemento (o peggio molti) nel quadro di una piccola città universitaria il fenomeno cambia. E alcune volte succede un miracolo di aggregazione sociologica quotidiana, come quella che mi descrisse Alessandra a proposito di una certa aula studio Pacinotti.

Si entrava in questo edificio per una strada chiamata Largo Bruno Pontecorvo e si trovava giusto accanto al polo universitario Fibonacci, che ospitava gli studenti di Matematica e Fisica. A prima vista sembrava una scuola elementare occupata dal movimento politico di turno perchè era circondata da motorini e biciclette parcheggiate alla buona e sicuramente potevi contare più persone che ciondolavano fuori l'ingresso o nel giardino sul retro che quelle che era capace di contenere. Dei due piani della struttura tre erano le aule studio realmente adibite alla funzione paventata mentre le altre erano per lo più stanze di ritrovo, dove la gente fumava alla finestra seduta su un divanetto occupato in parte da un gatto di cui nessuno aveva mai rivendicato la proprietà. Allora finisce che l'aula Studio Pacinotti diventa un nuovo punto d'incontro, dove passare intere giornate in compagnia, ma non dei libri. E biblioteche del genere in città ce ne dovevano essere diverse. Mi parlò di una in particolare, inaugurata un anno prima, chiamata SMS. Questo acronimo stava per San Michele degli Scalzi, ossia il nome della chiesa che sorgeva accanto alla nuova biblioteca che dava il nome anche a un complesso architettonico adibito a mostre d'arte, e che si trovava quasi in fondo al Viale delle Piagge. La biblioteca, di proprietà comunale, era strutturata su tre piani e rispondeva a un gusto moderno e sofisticato giocando sui toni del grigio e del rosso. Dentro era dotata di tutti i comfort: un sistema centralizzato di ricerca di libri in funzione di parole chiave, postazioni di computer, caffetteria, divanetti e aria condizionata. Ma sicuramente la caratteristica che secondo lei faceva schizzare questa biblioteca in cima alla classifica era la terrazza, su cui potevi addirittura abbronzarti quando il sole già cominciava a scaldare straordinariamente gli ultimi di marzo.

Mi sentivo ubriaca di informazioni. Nel tempo di un pranzo, mi sembrava di aver già fatto il giro della città. A un certo punto arrivò al tavolo il vecchio Stelio che domandò cordialmente se fossimo stati bene. Capì subito che non ero italiana, mi chiese di dove, poi improvvisò un gesto di flamenco con la mano e disse “Olè!”. Il conto era di 12 euro, non a testa: in totale. Ancora più soddisfatta salutai i proprietari e seguì Alessandra fuori dalla trattoria. Lei doveva andare a seguire una lezione di Diritto Privato quindi non avrebbe potuto accompagnarmi per tutto il pomeriggio ma previdente, tirò da fuori la borsa una cartina della città dove erano segnati i posti di maggior interesse turistico e dove lei da un lato aveva appuntato altre mete.

Erano le 14:30. Avevo poco più di un giorno per capire qualcosa di Pisa. Tanti degli italiani a cui avevo chiesto consiglio pensavano già che fosse troppo tempo. “Quando hai visto la Torre e la Piazza hai visto tutto”, dicevano. Ma a me piace smentire le persone e quindi avevo volutamente deciso di trovarlo io, qualcosa di interessante. La cartina segnava come posto più vicino Piazza dei Cavalieri quindi mi avviai per Via San Frediano. In pochi minuti ero arrivato. Quella Piazza era un altro miracolo, pensai. Davanti a me si trovava il Palazzo Cavalieri, o meglio della Carovana. La struttura architettonica era abbastanza lineare: un blocco rettangolare e compatto che si alzava per tre piani. Dal un confine all'altro della facciata potevo contare trentanove finestre che emergevano da uno sfondo biancastro ma precisamente decorato con affreschi di vario genere. Le due rampe di scale che si aprivano di lato dall'ingresso principale disegnavano un quadrilatero perfetto. L'edificio, realizzato da Giorgio Vasari tra il 1562 e 1564, è tuttora sede della prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa. Ne avevo sentito parlare una volta, come uno di quelli che definivano percorsi di eccellenza universitaria, ad accesso esclusivo di potenziali geni e menti brillanti di ogni ramo di studio. Nella piccola città di Pisa, sono tre le Università a contendersi il campo: c'è la statale (Università degli Studi di Pisa) e le due acerrime contendenti, la Scuola Superiore Sant'Anna e la Scuola Normale Superiore, entrambe private e ad accesso esclusivo. La storica rivalità tra le due era nota a tutti ma negli anni aveva assunto un colore quasi folkoristico tanto che veniva celebrata annualmente con un duello tra gli studenti dell'una e dell'altra fazione che si contendevano un primo posto a colpi di bombe d'acqua nello scenario di Piazza Santa Caterina, giusto dietro la sede del Sant'Anna. Davanti alla scalinata della Normale si trovava la statua dedicata a Cosimo I de' Medici, padre di Ferdinando I che commissionò l'opera nel 1596 nonchè primo Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano.

Scorrendo la Piazza verso sinistra si apre l'ingresso a tre strutture: il polo universitario Carmignani, la residenza universitaria Fascetti e la mensa centrale. Seguendo ancora si trova il suggestivo Palazzo dell'Orologio da cui svetta la Torre della Muda. Questa era nota ai più con l'appellativo “della fame”, facendo riferimento alla rovinosa vicenda del Conte Ugolino della Gherardesca che vi morì nel 1289 e raccontata nel ventitreesimo canto dell'Inferno dal poeta fiorentino Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Dice la leggenda che, condannato a morte dopo una sommossa popolare, venne rinchiuso nella Torre assieme ai suoi tre figli, senza cibo ne acqua e che dopo giorni di agonia, su offerta degli stessi eredi finì con nutrirsi dei loro corpi. Per questo Dante, guidato dalla legge del contrappasso, finisce per dipingerlo nel girone infernale dei traditori sia come un dannato che come un demone vendicatore, che affonda i denti per l'eternità nel capo dell'arcivescovo Ruggieri.

Gli altri edifici che si annoverano nello scenario della Piazza dei Cavalieri sono la Chiesa di San Rocco, il Palazzo del Collegio Puteano, la Canonica, il Palazzo del Consiglio dei Dodici e la Chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri con la sua facciata bianca di marmo carrarino.

Seguendo la strada che si apre tra la Normale e la Chiesa raggiungo Piazza Martiri della Libertà, meglio nota come Piazza Santa Caterina. Un ordine di platani rigogliosi circonda tutto il perimetro ovale dove al centro si erge una statua raffigurante il granduca toscano Pietro Leopoldo. Respirai a pieni polmoni la tranquillità di quel luogo seduto su una delle panchine poste nel circolo interno più vicino alla raffigurazione. Il sole era alto e caldo benché fosse appena l'inizio di aprile. In Italia era un po' un eccezione. Pensai a quanto fossi lontana da casa. Fisicamente lontana. E quanto questa lontananza dipendesse da esperienze assolutamente contingenti della mia vita. In quel momento mi trovavo a Pisa, una città che non avevo mai visitato e che probabilmente mai avrei visitato se durante il mio Erasmus non avessi conosciuto Marco davanti alla Facoltà di Giurisprudenza quando entrambi cercavamo una stanza dove stare. In poco tempo diventammo amici e gli promisi che una volta conclusa la nostra convivenza sarei andata in Italia a trovarlo. Ed eccomi lì, all'ombra fresca di quei platani pisani.

Continuavo a camminare senza una meta precisa, senza un programma determinato, mi lasciavo guidare solo dall'istinto che mi portò a imboccare una piccola strada chiamata Via Renato Fucini.

Mi fermai solo di fronte a quello che sembrava essere un piccolo alimentari che portava l'insegna di “La Carta Gialla”. Alessandra mi disse poi che avevo proprio avuto una gran fortuna a trovarlo da sola: quello era un altra piccola mecca gastronomica della città, che confezionava panini con abbinamenti di sapori tanto insoliti quanto appetitosi. Stracchino, noci e pera; marmellata e salumi; formaggi francesi e insalata; salmone e salsa yogurt; prosciutto crudo, grana e fragole e così via. Non avevo fame ma non potevo nemmeno resistere a quella cesta piena di prodotti speciali adornati da vasetti e vasetti di salse e sottoli, bottiglie di vino, barattoli Campbells che davano al tutto un gusto vintage-retrò. Così entrai e subito conobbi il proprietario che senza problemi si presentò: si chiamava Gianfranco. Anche lui, come Stelio, dava l'impressione di un vecchietto dall'animo vivace e profondamente innamorato del suo lavoro. Perchè nel giro di due minuti mi aveva già spiegato, buttando là qualche paroletta in spagnolo che si ricordava da una vecchia conoscenza, l'origine e il contenuto di quasi tutti i prodotti confezionati, di qualità e ricercati che erano disposti dietro al bancone. Ad affiancarlo, l'inseparabile moglie Rita, simpatica e cortese che mi spiegò per filo e per segno il ripieno di ogni panino sopra il bancone. Non avevo molta fame, ma gola parecchia quindi mi buttai su una baguette ripiena di prosciutto crudo, pecorino e tartufo previo consiglio della stessa consorte. Decisi di accompagnarlo con una lattina di chinotto, salutai i simpatici proprietari e ripresi il mio giro.

Da Via Renato Fucini attraversai un parcheggio sul quale si affacciava un grande cinema multisala e la Chiesa di San Paolo all'Orto fino a raggiungere Teatro Verdi di Pisa. Quella sera era in programma il balletto de Il Lago dei Cigni di una compagnia russa dal nome impronunciabile. Sbirciai con un occhio dentro la porta principale. C'era una grande sala d'ingresso, sui toni dell'oro. La biglietteria da un lato e una caffetteria dall'altro. Dall'ingresso un tappeto rosso ti accompagnava al centro della sala fino a biforcarsi su per le rampe di scale laterali che raggiungevano gli spalti privati. Immaginai l'interno, la platea e il palcoscenico. Il teatro era un luogo che mi aveva sempre affascinato anche se ci ero stata poche volte e a vedere sempre commedie. Ma non potevo fermarmi più di tanto: avevo tante altre cose da vedere. Così passando per Piazza Cairoli, che i pisani chiamano “della Berlina” poiché secondo la tradizione, i criminali venivano legati alle colonne (messi alla berlina) e scherniti dal resto della città, raggiunsi il Lungarno, cioè la strada che costeggia l'omonimo fiume Arno.

Seppi poi che i tratti del Lungarno assumevano diversi nomi a seconda della zona di riferimento anche se i più famosi erano i quattro lato nord e sud della città che si aprivano alla destra e alla sinistra del Ponte di Mezzo. Al momento io mi trovavo in Lungarno Galilei e passando proprio dal Ponte principale mi accingevo a raggiungere Piazza del Pozzetto. Protagonista di questo spazio da cui si apre la strada principale, Corso Italia, che conduce fino alla stazione dei treni è il loggiato chiamato appunto, Logge di Banchi. Costruito tra il 1603 e il 1605 su progetto di Bernardo Buontalenti, si erge su da dodici pilastri e ospita a fine settimane alterni banchetti e mercatini di ogni tipo: dall'artigianato locale alla gastronomia tipica fino alle raccolte vintage di cassette musicali, libri e vinili. Alla base due scalette laterali conducono al piano inferiore che ospita i bagni pubblici. Mi fermai a fare un giro tra le bancarelle, incontrando diverse cose di mio interesse. In particolare mi soffermai a contemplare un vecchio disco in vinile 45 giri di un certo Fred Buscaglione che veniva ritratto di profilo in bianco e nero, circondato da fumo di sigaretta e con uno sguardo malinconico. Alla fine lo comprai per cinque euro. Non avevo nemmeno un giradischi ma mi piaceva collezionarli, special modo quelli di paesi differenti dal mio. Passai anche davanti a una bancarella di spezie che diffondevano nell'aria un profumo dolce e aromatico. La proprietaria mi chiese di comprare qualcosa ma con un gesto cortese della mano declinai.

Mi diressi verso Palazzo Gambacorti, originariamente proprietà di un'omonima famiglia nobiliare e attualmente sede del Comune della città. C'era un accesso per ogni lato della struttura che si alzava su tre piani, i più alti riservati agli uffici amministrativi. Quello terra ospitava una mostra di fotografie tutte in tonalità seppia che ritraevano diversi scorci della città. Mi colpì in particolare una fotografia di un bambino che giocava a pallone in quella che scoprì chiamarsi poi Piazza Vittorio Emanuele II, intitolata al primo re d'Italia. Uscii dall'ingresso che si affacciava sul Lungarno (stavolta Gambacorti) e presi la sinistra avviandomi verso Palazzo Blu. Il perché si chiamasse così era evidente, come il suo colore. Spiccava tra la distesa di palazzi della medesima altezza e stile, per quella sua colorazione bluastra, detta anche “dell'aria”. E in effetti proprio questa caratteristica rispecchiava molto la sua funzione, cioè di centro espositivo artistico che attualmente ospitava una mostra di un pittore livornese chiamato Amedeo Modigliani.

Era stata Alessandra a consigliarmi di andarci. Le avevo detto che mi piaceva l'arte, in particolare la pittura e subito le era saltato alla mente questa mostra che in pochi mesi aveva richiamato in città quasi duemila visitatori. Era un pittore abbastanza famoso in Italia e non solo. Il suo nome mi diceva poco ma cercando qualche immagine su Google mi ricordai di essermi soffermata qualche tempo a osservare le sue opere. Partendo da Pablo Picasso, uno degli autori che amavo di più, avevo ricostruito la cerchia delle sue amicizie e frequentazioni artistiche scovando anche questo italiano di provincia che aveva trascorso molto tempo nella capitale francese imparando l'arte, facendola e da un certo momento, insegnarla. Il suo era uno stile mai visto. Si occupava prevalentemente di ritratti (per lo più donne) caratterizzate da una silouette slanciata e sinuosa, con colli lunghi e affusolati con un uso del colore neutro e senza forti contrasti. Già dal tipo di pittura si poteva anticipare il contrasto, per non dire la rivalità, che scaturì negli anni tra il pittore malagueno e Modigliani. Erano loro due a contendersi la scena artistica parigina a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo. Voci parlano addirittura di veri e propri duelli a colpi di matita combattuti nell'ambito dei più rinomati caffè bohemien della città mentre una delle leggende più famose intorno a Picasso vorrebbe che proprio il nome di Modigliani fosse l'ultima parola che proferì prima di morire.

Senza altri indugi mi avviai alla porta e poi alla biglietteria. Comprai il biglietto usufurendo di uno sconto studenti ottenuto esibendo il carnet universitatio. Mi fornirono di un'audioguida in lingua e dopo mi avviai all'interno. Il percorso era ben strutturato; le opere esposte precisamente in ordine cronologico e man a mano che le scorrevo seguivo le tracce audio che mi raccontavano delle esperienze di vita che lo avevano segnato dandogli il “La” per la sua prossima opera. Capii subito che si trattava di un pittore molto suggestivo e introspettivo, come piacciono a me. Da un semplice ritratto si intuiva già una storia. Se si trattava di donne, si coglieva un sentimento, che fosse di compassione, ammirazione, passione. Nato nella vicina città costiera di Livorno nel 1884, Amedeo Mogliani, che divenne noto con il soprannome di Modì, soffrì fin da piccolo di salute cagionevole che lo portò numerose volte al ricovero a causa di una polmonite che si trasformò presto in tubercolosi. Morirà per la stessa a Parigi nel 1920 all'età di soli trentacinque anni. Nonostante questo limite Modì era uno spirito libero, pronto a cogliere ogni occasione che gli si presentasse. Per questo, giovanissimo, decise di partire alla volta della capitale francese, vera Mecca di qualsiasi persona avesse l'ardire di saper impugnare un pennello. Vi trascorse la maggior parte della sua vita, e proprio lì conobbe la donna che avrebbe segnato la sua vita e indubbiamente rivoluzionato la sua esperienza artistica. La riconobbi subito ammirando il suo ritratto. Non c'era bisogno di conferme: da come scivolava il tratto del pennello lungo i bordi del suo corpo disegnandone le forme, le labbra, i capelli, le spalle, si poteva intuire quanto l'amasse. Si chiamava Jeanne Hebuterne. Quando si conobbero nel 1917 lei era poco più che una ragazzina, una pittrice in erba che studiava presso l'Accademia Colarossi. In poco tempo divennero l'uno il completamento dell'altro. Si trasferirono a Nizza per lunghi periodi, ebbero un figlio. Poi le condizioni di salute di Amedeo cominciarono a peggiorare fino alla morte prematura. Ma Jeanne, incinta al nono mese, non potè superare l'abbandono e appena due giorni dopo si uccise gettandosi dalla finestra del loro appartamento al quinto piano. Sulla sua tomba nel cimitero parigino di Bagneux si legge sull'epitaffio: “devota compagna fin all'estremo sacrifizio”. La mostra si articolava in almeno cinque sezioni tematiche scandite secondo altrettante stanze e rami del palazzo. Apprezzai la cura con la quale si articolava il percorso. Impiegai quasi due ore nella visita. E al termine mi trovai nello shop ad acquistare anche una cartolina raffigurante proprio uno dei numerosi ritratti di Jeanne che mi avevano colpito di più.

Erano quasi le 17 e mi era venuta un po' di fame. Per cui tirai fuori dallo zaino il panino comprato alla Carta Gialla e lo addentai. Era veramente insolito e squisito. Fra due ore avrei avuto appuntamento con Alessandra per un aperitivo. Mi aveva lasciato l'indirizzo del locale che era una birreria chiamata Orzobruno: Via delle Case Dipinte, numero 6.

Decisi quindi di attraversare Corso Italia, un'altra via dello shopping della città, per poi dirigermi all'ostello. Prendeva il nome dalla città e si trovava appena a 500 metri dalla stazione centrale. Avevo prenotato per un posto letto a prezzo in offerta: appena 11 euro in una stanza condivisa per sei persone. Ho sempre adorato l'atmosfera che si respira negli ostelli. Persone di tutto il mondo che puoi incontrare nella distanza di un letto all'altro, che si ritrovano a parlare per un'assurda coincidenza del caso. Recentemente ristrutturato, Hostel Pisa offriva ogni possibile comfort: ottima posizione, reception ventiquattro ore su ventiquattro, connessione wi-fi, cucina attrezzata, deposito bagagli e un servizio di noleggio asciugamani e biciclette.

Mi riposai un'oretta e mi avviai all'appuntamento. Trovai facilmente il posto e mi colpì parecchio. Era una bella birreria, già piena di gente che aveva una offerta appetibile di birre artigianali. La luce aranciata dell'interno rendeva tutto ancora più familiare. Alessandra mi chiese cosa avessi visto e le iniziai a elencare la mia visita soffermandomi in particolare sulla mostra. In poco tempo ci raggiunsero gli altri suoi amici. Passammo una bella serata a chiaccherare della città e di tutto quello che non avrei avuto tempo di vedere.

Mi parlarono di Giardino Scotto: un parco che adornava la cosiddetta Cittadella Nuova (per distinguerla da quella Vecchia che si trovava dalla parte opposta della città), che era uno dei luoghi di ritrovo per passare al sole la domenica pomeriggio. Il complesso era costituito dal Bastione, dal giardino proprio, da un Anfiteatro naturale, e da una imponente torretta.

Poi arrivò il tema proprio di Mezzogiorno e Tramontana, ovvero le due fazioni che si spartivano la città da sud e a nord dell'Arno. Queste, si fronteggiavano annualmente e secondo un'antica tradizione, nello storico Gioco del Ponte, che consiste nello spingere un carrello lungo un binario montato sul Ponte di Mezzo ad opera di figuranti chiamati combattenti divisi in dodici squadre o magistrature. Alessandra mi disse che naque come un gioco fortemente violento in cui i combattenti si fronteggiavano a colpi di mazza tanto da portare la Regina reggente d'Etruria, Maria Luisa in visita a Pisa a dichiarare: "per Gioco è troppo, per guerra è poco".

Ordinammo diverse birre che ci servirono con un ricchi piatti di affettati e formaggio. Pagammo il conto e ci dirigemmo verso Piazza delle Vettovaglie. Come mi avevano anticipato era piena di gente, faticavamo a passare. Mi fecero provare diversi liquori: Amaro del Capo, Amaro del Pollino, Limoncello e Disaronno. Incontrammo molte persone di loro conoscenza e il gruppo si allargò in fretta.

Verso le due di notte ci avviammo a ballare in una piccolo locale chiamato Borderline. C'era un gruppo che suonava dal vivo musica rock. Pensai che fosse un ottimo modo per chiudere il mio viaggio. Ma non avevo ancora scoperto Dolce Notte, ossia una deliziosa pasticceria notturna situata in Piazza della Pera, che offriva ai giovani studenti di rientro dalla serata, bomboloni ripieni di cioccolato, crema o marmellata di fragole.

Così si chiudeva la mia avventura pisana prima di rientrare all'ostello. Ringraziai Alessandra e i suoi amici per l'ospitalità e la piacevole compagnia con la promessa di rivederci un giorno chissà dove.

Sulla via di casa pensai che avevo visto molto di più della Torre di Pisa, che questa città aveva molto da offrire ma soprattutto da scoprire e che ci avrei passato volentieri un altro giorno in più. Ma il mio programma di viaggio non me lo permetteva. Dovevo tornare a casa.

Il giorno dopo presi il primo treno della mattina dalla Stazione Centrale e mentre scorrevo il paesaggio dal finestrino salutai quel piccolo gioiello di città che non aveva niente da invidiare alle sua concorrenti toscane. Buon cibo, cultura, e ottima compagnia.

In cos'altro avrei potuto sperare?

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