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Heidelberg, bella e dannata


Heidelberg, bella e dannata.

 

La collina santa della memoria.

Heidelberg è una cara cittadina della Germania più tedesca. Tedesca nel senso antico, romantico e protoromantico. Si allunga e si assottiglia, seguendo il dorso del Neckar, quasi come se si protendesse verso la scoperta, verso l’ignoto. È lei a distendersi sul letto del fiume come una sposa novella sul talamo o sono le colline, morbide all’apparenza, a schiacciarla e a comprimerla? Le colline di Heidelberg sono un bosco fitto e scevro da edifici e costruzioni, che si avvita sulle forme dolci della terra e della roccia, verde e scuro come nei dipinti di Friedrich. I tetti rossi, le case basse dai muri di pietra che si riflettono ondeggiando sul fiume, i colli profondi, tutto qui sembra urlare: Germania! Tutto qui sembra raccontare incessantemente, in una nenia circolare, la Germania del XVIII secolo, suggerire in tono più dimesso quella del XIX e infine, in un contegno tipicamente tedesco, sussurrare con sillabazione chiara l’orrore del XX secolo. In cima al colle santo (Heiligenberg) sorge la sede di questa memoria ineludibile eppure penosa, terrificante: il teatro nazista (Thingstätte), costruito poco dopo il 1933. Qui si consumavano riti della liturgia nazista e rievocazioni delle epiche battaglie germaniche. È curioso come, alla sommità di questa storia massiccia, si venga rispediti indietro, all’inizio del colle e, al contempo, alle pendici della storia del nazionalismo tedesco. In effetti, alla base della collina si trova una camminata panoramica, il sentiero dei filosofi (Philosophenweg), chiamato così perché Hölderlin amava passeggiare avanti e indietro su questo terrazzamento affacciato sulla linea sinuosa del fiume. Oggi, al di là della vista stupefacente, rimane poco di poetico in questa stradina, che è più vicina a essere una lingua di cemento che uno di quei leggendari sentieri interrotti di Heidegger, disseminati all’interno della foresta nera (Schwarzwald).

Lo sguardo romantico.

Mentre cammino, non posso fare a meno di chiedermi a cosa pensasse il celebre poeta e filosofo romantico durante le sue passeggiate. Era inquieto? Così, infatti, mi immagino normalmente le più autentiche incarnazioni dello spirito romantico. Eppure, allungando il collo e sporgendosi leggermente dal parapetto, ci si sente parte di una bellezza troppo grande, di un abbraccio troppo caloroso perché vi sia posto per un sentimento di angoscia e irrequietezza. Forse Holderlin, però, vedeva e non vedeva; forse si lasciava trasportare lontano da uno sguardo più antico, oltre le colline, oltre questa oasi di quiete.

L’ira degli dei.

Inquietudine, questo sì, è ciò che sibila e fruscia lassù, sulla coppola della collina, dove la voce di Goebbels sembra ancora riecheggiare minacciosa, come la rabbia di un Giove crudele. Le urla e le acclamazioni delle ventimila persone che nel 1935 ascoltarono il suo discorso dagli spalti del teatro sono fantasmi dannati, moderni Sisifo eternamente costretti a salire e ridiscendere i pendii del colle. Santo o dannato, il colle è un tempio sacro della memoria. È un palindromo storico che si può leggere in entrambi i sensi, dall’alto verso il basso, passando attraverso la basilica romanica distrutta e poi giù fino a una delle torri di Bismarck, oppure dal basso verso l’alto, partendo da quell’universo medievaleggiante che è la città vecchia (Altstadt) e risalendo da quel palpitio romantico, che fu sia brezza, sia tempesta.

Nostalgica e immobile Heidelberg.

Rilke scrive: “Questa è la nostalgia: vivere nel fluire e non avere patria nel tempo” (Das ist Sehnsucht: leben in Gewogen/ und keine Heimat haben in der Zeit). In qualche modo Heidelberg è una cittadina nostalgica e antinostalgica. La sua vita sembra rifluire con il fiume e riversarsi immutata in ogni tempo, eppure conservando un timbro originario e ineffabile. Ironicamente, è anche una città che non sembra invidiare mai nulla al proprio passato, sicura di se stessa in ogni altrove temporale e magnifica nella sua algida compostezza.


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